lunedì 6 agosto 2012

Taranto, un operaio dell'Ilva chiede scusa ai malati


per la chiarezza di chi posta e legge
l'operaio di cui parla Piero è uno dei tre membri attuali del direttivo dello Slai cobas per il sindacato di classe ILVA ed è attualmente il più attivo in fabbrica per portare gli operai Ilva a entrare nello Slai cobas per il sindacato di classe all'ilva anche se è evidente che nell'intervento fatto a Tamburi parla come tutti gli altri a titolo personale
gli operai dello slai cobas per il sindacato di classe all'ilva taranto sono altrettanto 'liberi e pensanti'

slai cobas per il sindacato di classe ilva taranto
5 agosto 2012

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Sent: Saturday, August 04, 2012 5:52 PM
Subject: Taranto, un operaio dell'Ilva chiede scusa ai malati


E l’operaio prese la parola per chiedere scusa ai malati


TARANTO - «Da operaio dell’Ilva chiedo scusa ai bambini del quartiereTamburi, agli ammalati. E penso ai morti di tumore». Cala il silenzio a piazza Gesù Divin Lavoratore, in cielo solo un cenno d’imbrunire. Piero,
operaio dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico, prende la parola durante l’assemblea del comitato di operai e cittadini «liberi e pensanti», il giorno dopo il blitz della grande fuga sindacale dal palco di piazza
della Vittoria. E in piazza della Vittoria, ieri mattina, il raduno degli ambientalisti che hanno incoraggiato la magistratura impegnata con il Riesame del provvedimento di sequestro dell’area a caldo Ilva e con gli
arresti eccellenti della dirigenza siderurgica. Piazza Gesù Divin Lavoratore, la piazza simbolo della città operaia, col Cristo delle ciminiere troneggiante sull’altare della chiesa, simbolo di un patto tra fabbrica e città corroso da gas e polveri e che pure costringe a vivere da separati in casa, chissà poi per quanto ancora.

«Nel mio piccolo - attacca Piero di fronte a un centinaio di persone radunatesi alle sette di sera in piazza e circondate da un imponente schieramento di forze dell’ordine - mi sento di chiedere scusa a chi ora soffre e vive una condizione di malattia legata all’inquinamento. E chiedo scusa perché ho contribuito a inquinare». Gli uomini che guadagnano da anni il pane in fabbrica aprono le porte di se stessi e sembra di vedere dentro
di loro, dentro il loro cuore, il dubbio, l’angoscia, la necessità, quasi esplosa all’improvviso, di guardare in faccia gli altri, i propri concittadini, di raccontarsi e raccontare una fabbrica chiusa finora in se stessa.

«La politica ha gravi responsabilità - dice ancora Piero al microfono, nella sua narrazione che è storia a precipizio lungo un ripido crinale - perché non ha messo i paletti alle aziende dell’a re a industriale: Ilva, Eni,
Cementir; per evitare l’inquinamento al quartiere Tamburi, a Statte, a Paolo VI, nel centro della città. La mia azienda dice: abbiamo investito miliardi per abbattere l’inquinamento. E allora perché si scende in piazza? Perché i Tamburi sono ancora un quartiere martoriato?».
La voce di Piero s’incrina e le lacrime cominciano a scendere sul viso come le prime ombre della sera al quartiere Tamburi. Poco lontano da qui un altro operaio, Peppino Corisi, in due lapidi, aprì e chiuse la parentesi di operaio ambientalista, iscrivendo la propria tragedia personale e quella di un popolo: la maledizione per le polveri «per chi poteva fare e non ha fatto» e il suo personale testamento a futura memoria per «l’ennesimo morto» di tumore a polmone.

L’ennesimo, un numero. Il numero e l’operaio, la diluizione acida di un’identità di classe che solo un riscatto di coscienza, ambientale e non ambientalista, può mutare. Piero torna a identificarsi con la piazza, le sue lacrime trascinano l’applauso. Certo facile, in questi giorni; inevitabile. Ma solo un mese fa impossibile, una bestemmia. «Ho famiglia, due figli. Uno stipendio di 1400 euro e 750 euro di mutuo da pagare. Per quello che sta accadendo penso con più rabbia alla politica. Doveva fermare l’inquinamento.
E penso con rabbia ai sindacati. Loro avrebbero dovuto dire per primi che si doveva fermare l’inquinamento. Invece oggi mi ritrovo a pensare a chi lavora le cozze, al mare così inquinato, al posto di lavoro perso. E mi sento in colpa».

Piero conclude mentre la sera avvolge nuvole e ciminiere. Piega un attimo la testa, trattiene il fiato e trova la forza per guardare la piazza, quegli occhi nei quali cerca sguardi e pensieri uguali al suo dolore: «Chi pagherà
l’inquinamento a Taranto? Lo Stato e le aziende. È l’ora in cui la politica e le industrie si prendano la loro responsabilità. Risarcire Taranto.
Chiederlo per i malati, i bambini, per chi vive in questa città». La piazza applaude. Piero non smette di piangere. Poi si riprende e si mescola di nuovo alla folla, quasi avesse bisogno del suo calore, del suo abbraccio protettivo. Sembra compiuta una specie di Apocalisse d’acciaio. Tante le strette di mano, tanti gli incoraggiamenti dei «liberi e pensanti». Per sentirsi meno solo, in una sera d’agosto al quartiere Tamburi, a Piero può bastare.

[fulvio colucci, gazzetta del mezzogiorno 4/8/2012]
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