sabato 21 dicembre 2013

LA MELA AVVELENATA DELLA APPLE: UN OPERAIO DI 15 ANNI MUORE DI LAVORO A SHANGHAI



Venerdì 13 Dicembre 2013
La mela di Apple continua ad essere un frutto avvelenato per chi lavora per produrre gli oggetti elettronici più cool del pianeta. L’ultima vittima è Shi Zaokun, un giovane operaio quindicenne della Pegatron, azienda con sede a Shanghai che produce iPhone5.
Shi Zaokun lavorava fino a 80 ore a settimana, con documenti falsi che la Pegatron gli aveva procurato per aggirare la legge che proibisce il lavoro minorile.
Ovviamente sia Pegatron che Apple smentiscono categoricamente che ci sia una correlazione tra la morte del giovane (ultimo di ben cinque episodi negli ultimi mesi) e le condizioni di lavoro. Ma l’evidenza ci suggerisce il contrario.
E così, dopo la Foxconn, anche la Pegatron ci dimostra quanto dietro il design affascinante e il bianco abbagliante di Apple si nasconda una pozza di sangue sempre più profonda.

 

CINA, TURNI MASSACRANTI: MUORE A 15 ANNI IN FABBRICA DI IPHONE

Shanghai
Ha lavorato fino alla morte. Aveva 15 anni, si chiamava Shi Zaokun e ha perso la vita con una polmonite dopo un mese di turni massacranti per produrre iPhone 5 presso la Pegatron, azienda taiwanese con sede a Shanghai che produce per la Apple.
La Pegatron nega qualsiasi legame tra la morte del ragazzo e il lavoro presso la fabbrica, ma China Labor Watch, l’organizzazione che si occupa dei diritti dei lavoratori, sostiene invece che sarebbero state proprio le difficili condizioni di lavoro, turni anche di 12 ore consecutive per sei giorni alla settimana, a farlo ammalare.
Secondo le accuse inoltre, la Pegatron, per poter far lavorare Shi avrebbe falsificato i suoi documenti, facendo risultare che avesse 20 anni e non 15 e aggirare il divieto di assumere minorenni. La legge cinese, e le policy di Apple prevedono che gli operai debbano lavorare per non più di 60 ore a settimana mentre, a quanto sostengono gli attivisti di China Labor Watch, gli ingressi e le uscite dimostrano che il giovane ne lavorava sempre quasi 80 a settimana.
Dopo la Foxconn, altro importante fornitore della Apple in Cina, dunque anche Pegatron è finita nell’occhio del ciclone. Negli ultimi mesi sono stati cinque gli operai della Pegatron morti. Apple ha intanto inviato un team di suoi medici esperti per valutare la situazione e individuare le eventuali anomalie ma i primi accertamenti non hanno portato a nulla.
“Non abbiamo trovato prove di collegamento tra le morti e le condizioni di lavoro nella fabbrica” - si legge in un comunicato della Apple - “ma ci rendiamo conto che questo non è di conforto per la famiglia che ha perso il proprio caro. Abbiamo un team di lavoro alla Pegatron che serve proprio a garantire che operino secondo i nostri elevati standard”.

Per approfondire:

SFRUTTAMENTO E RESISTENZA DEGLI OPERAI DELLE FABBRICHE CINESI FOXCONN

LA CINA È VICINA! LOTTE OPERAIE NEL CUORE DELL’OFFICINA DEL MONDO
Questo ottobre verrà in Italia un compagno tedesco che ha curato un libro molto interessante sul capitalismo cinese: “ISlaves. Sfruttamento e resistenza nelle fabbriche cinesi della Foxconn”.
Il libro, che sta riscuotendo molto interesse perché basato su una conoscenza diretta della realtà cinese, è stato presentato nelle maggiori città europee e non solo: abbiamo dunque pensato di proporre anche qui da noi un ciclo di iniziative. Per avviare il dibattito, abbiamo messo insieme una piccola antologia di scritti utili a conoscere, fuori dalle rappresentazioni mediatiche o ideologiche, la complessa realtà sociale cinese, e la coraggiosa lotta di questi operai contro lo sfruttamento globale. In queste righe cerchiamo di spiegare perché questa conoscenza può essere utile anche alle nostre lotte. Buona lettura!
Non c’è lavoratore in Italia e in Europa che in qualche modo non abbia a che fare con la Cina.
Per esempio attraverso le merci “Made in China”, così a buon mercato da essere a portata del proprio misero salario. O perché ha perso il proprio posto di lavoro, delocalizzato in Cina, così che il padrone possa pagare salari ancor più miseri (secondo un recente studio della CGIA di Mestre, reperibile all’indirizzo http://www.cgiamestre.com/2013/03/la-crisi-ha-fermato-la-fuga-delle-nostre-aziende/ le imprese italiane che hanno delocalizzato in Cina sono 1.103, anche se non è chiaro l’arco temporale di questa misurazione). O magari perché il suo padrone è proprio una qualche azienda cinese che ha investito in Italia (un quadro veloce degli IDE cinesi in Italia si può trovare all’indirizzo http://www.firstonline.info/a/2012/11/08/i-cinesi-in-italia-storie-dimprese-una-presenza-se/024093cc-5919-4d2f-8685-94501874ebca).
Altre volte, invece, il lavoratore italiano ed europeo ha direttamente a che fare con il lavoratore cinese, ma lo teme o lo disprezza, perché spaventato dalla competizione al ribasso nelle condizioni di lavoro che comporta la presenza di tali lavoratori vulnerabili ed esposti al peggior sfruttamento. D’altra parte, la condizione di clandestinità, l’obbligo di onorare il proprio debito di viaggio, l’isolamento linguistico, rendono difficilissimo al lavoratore cinese resistere a quello stesso sfruttamento e sostituire alla competizione la solidarietà.
C’è da dire che, almeno in Italia, la condizione dei lavoratori migranti cinesi si differenzia da quella di molti altri migranti, in quanto questi lavoratori lavorano per lo più in aziende di altri cinesi, magari proprio quelli a cui devono il debito, in condizioni di pressoché totale invisibilità e servaggio. Non c’è quindi concorrenza con i lavoratori autoctoni per lo stesso posto di lavoro, né sono oggetto diretto della Bossi-Fini. La pressione competitiva operata dal loro sfruttamento si esercita piuttosto nel rischio di fallimento delle aziende autoctone che non spremono allo stesso modo la propria manodopera, mentre la clandestinizzazione operata dalle nostre leggi repressive crea le condizioni dello strapotere dei propri aguzzini. Nella recente inchiesta reperibile all’indirizzo http://www.thepostinternazionale.it/mondo/italia/schiavi-cinesi-in-italia si può trovare un rapido schizzo delle loro condizioni.
Anche nella sfera pubblica la Cina impone la sua presenza, innanzitutto come gigante economico la cui crescente competitività nel mercato mondiale obbliga ad un eguale incremento di competitività i paesi europei. Processo, questo, acuito dalla crisi economica globale, tanto che molte delle trasformazioni istituzionali e legislative di questi ultimi anni di manovre “lacrime e sangue” (dai tagli alla spesa pubblica alle riforme del lavoro e delle pensioni, dall’ipotesi di unione bancaria ai processi di centralizzazione delle decisioni economiche) non rappresentano altro la traduzione politica delle trasformazioni economico-sociali dovute all’impatto sul mercato mondiale di questa ed altre “economie emergenti”.
Pure quando la Cina viene presentata come “opportunità”, nella forma di partner commerciale o di potenziale investitore da attrarre, è chiaro chi intende beneficiare di questa occasione. A segnalarlo bastano le parole dell’ex-premier Monti, quando, facendo leva sulle presunte esigenze degli investitori cinesi, giustificava le manovre del governo che andavano verso l’abolizione dell’articolo 18: “I cinesi hanno detto chiaramente che la rigidità del nostro mercato del lavoro è uno dei fattori che finora li ha disincentivati dall’investire in Italia” (fonte agichina24.it). A ricordarci che il benessere di cui parlano si erge su uno sfruttamento a ritmi “cinesi”.
Minaccia e opportunità, paura e speranza, immagini e sentimenti molteplici e divergenti, quanto divergenti e molteplici sono gli interessi dei gruppi sociali investiti dalle trasformazioni prodotte dall’ascesa del gigante asiatico. La borghesia italiana ed europea più internazionalizzata, il grande capitale cosmopolita, annusa le occasioni di affari di questo nuovo grande mercato, ma può vedere contemporaneamente altri affari compromessi dalla competizione con gli altri grandi capitalisti cinesi; i piccoli e medi padroncini nostrani rischiano di soccombere all’artiglieria pesante delle merci cinesi a basso prezzo, ma possono anche ridurre i costi spostando almeno parte della produzione verso est, e la paura che i propri equivalenti cinesi li freghino sfruttando i propri connazionali si accompagna alla speranza di poter essere loro stessi a sfruttare questa manodopera.
Per non parlare delle conseguenze indirette dell’ascesa del Grande Dragone su parametri come il prezzo delle materie prime, la direzione dei flussi finanziari, il corso dei cambi, il clima e l’ambiente, ecc., che contribuiscono a scomporre e ricomporre un quadro di interessi in continua evoluzione. Tutte queste rappresentazioni restituiscono un’immagine monolitica di una Cina che con il suo irrompere nella scena del sistema capitalistico globale impone necessari, inevitabili, adattamenti. Così come da noi sono pensabili, e si mostrano, sempre e solo divergenze componibili nel quadro di un proclamato interesse generale che non ammette l’esistenza di un autentico, inconciliabile, antagonismo – così all’estero non si può che vedere un oggetto coerente, che pur nella sua mutevolezza e dinamicità si mantiene uguale a sé stesso ed è privo della possibilità di un autentico mutamento.
Le fratture interne alla società cinese sembrano rimanere sempre armonizzabili: non scalfiscono la raffigurazione unitaria proiettata dall’urgenza di farci i conti della nostra altrettanto unita società.
Sulla scia del più puro corporativismo, infatti, il paradigma della “Società Armoniosa” (come le classi dirigenti cinesi amano presentare il loro sistema), dichiara e ricerca a tutti i costi la conciliabilità tra capitale e lavoro, mistificando l’incompatibilità radicale tra chi produce e chi profitta della fatica altrui, trasfigurandola nella forma del compromesso tra “sviluppo ed eguaglianza”, del bilanciamento tra “equità e modernizzazione”, ecc.
Non è un caso che la retorica della “società armoniosa” prenda piede con la presidenza di Hu Jintao ad inizio degli anni 2000, in contemporanea con l’emergere di una nuova composizione della classe operaia e delle sue lotte, nel tentativo di cooptarne e sedarne gli elementi più destabilizzanti (elemento, questo delle lotte operaie, paradossalmente assente in molte delle analisi di chi individua nella Cina un riferimento per i percorsi di rottura dell’attuale ordine capitalistico mondiale).
Sono proprio le lotte di questa classe operaia al centro di quella che da alcuni è definita “l’officina del mondo”, e che anche in virtù di queste lotte rischia di perdere questo primato, a essere oggetto dei materiali che pubblichiamo in occasione del ciclo italiano di presentazione dei testi raccolti nel libro “ISlaves. Sfruttamento e resistenza nelle fabbriche cinesi della Foxconn”. Lotte che hanno manifestato una drammatica accelerazione negli ultimi anni di recessione globale, portando a considerevoli conquiste salariali e sindacali.
Anche qui, come mostrano bene i testi che abbiamo raccolto, gli effetti di queste conquiste sull’economia globale e quindi sui lavoratori di tutto il mondo possono essere molteplici e contraddittori. Detto questo, la sola esistenza di questi lavoratori nell’atto della lotta svela che quelle che sembravano irresistibili forze economiche cieche a cui non si può che adattarsi o soccombere, sono in realtà il frutto di uno sfruttamento a cui ci si può ribellare.
Far proprio questo insegnamento e contribuire nel nostro piccolo a gettare le basi perché ci si possa realmente appropriare di queste forza comune, superando ciò che la frammenta, è il motivo della pubblicazione di questi testi, nonché lo scopo della nostra iniziativa.

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