Venerdì 13 Dicembre
2013
La mela di Apple
continua ad essere un frutto avvelenato per chi lavora per produrre gli oggetti
elettronici più cool del pianeta. L’ultima vittima è Shi Zaokun, un giovane
operaio quindicenne della Pegatron, azienda con sede a Shanghai che produce
iPhone5.
Shi Zaokun lavorava
fino a 80 ore a settimana, con documenti falsi che la Pegatron gli aveva
procurato per aggirare la legge che proibisce il lavoro minorile.
Ovviamente sia
Pegatron che Apple smentiscono categoricamente che ci sia una correlazione tra
la morte del giovane (ultimo di ben cinque episodi negli ultimi mesi) e le
condizioni di lavoro. Ma l’evidenza ci suggerisce il
contrario.
E così, dopo la
Foxconn, anche la Pegatron ci dimostra quanto dietro il design affascinante e il
bianco abbagliante di Apple si nasconda una pozza di sangue sempre più
profonda.
CINA, TURNI MASSACRANTI: MUORE A 15 ANNI IN FABBRICA DI IPHONE
Shanghai
Ha lavorato fino
alla morte. Aveva 15 anni, si chiamava Shi Zaokun e ha perso la vita con una
polmonite dopo un mese di turni massacranti per produrre iPhone 5 presso la
Pegatron, azienda taiwanese con sede a Shanghai che produce per la Apple.
La Pegatron nega
qualsiasi legame tra la morte del ragazzo e il lavoro presso la fabbrica, ma
China Labor Watch, l’organizzazione che si occupa dei diritti dei lavoratori,
sostiene invece che sarebbero state proprio le difficili condizioni di lavoro,
turni anche di 12 ore consecutive per sei giorni alla settimana, a farlo
ammalare.
Secondo le accuse
inoltre, la Pegatron, per poter far lavorare Shi avrebbe falsificato i suoi
documenti, facendo risultare che avesse 20 anni e non 15 e aggirare il divieto
di assumere minorenni. La legge cinese, e le policy di Apple prevedono che gli
operai debbano lavorare per non più di 60 ore a settimana mentre, a quanto
sostengono gli attivisti di China Labor Watch, gli ingressi e le uscite
dimostrano che il giovane ne lavorava sempre quasi 80 a
settimana.
Dopo la Foxconn,
altro importante fornitore della Apple in Cina, dunque anche Pegatron è finita
nell’occhio del ciclone. Negli ultimi mesi sono stati cinque gli operai della
Pegatron morti. Apple ha intanto inviato un team di suoi medici esperti per
valutare la situazione e individuare le eventuali anomalie ma i primi
accertamenti non hanno portato a nulla.
“Non abbiamo
trovato prove di collegamento tra le morti e le condizioni di lavoro nella
fabbrica” - si legge in un comunicato della Apple - “ma ci rendiamo conto che
questo non è di conforto per la famiglia che ha perso il proprio caro. Abbiamo
un team di lavoro alla Pegatron che serve proprio a garantire che operino
secondo i nostri elevati standard”.
Per
approfondire:
SFRUTTAMENTO E RESISTENZA DEGLI OPERAI DELLE FABBRICHE CINESI FOXCONN
LA
CINA È VICINA! LOTTE OPERAIE NEL CUORE DELL’OFFICINA DEL
MONDO
Questo
ottobre verrà in Italia un compagno tedesco che ha curato un libro molto
interessante sul capitalismo cinese: “ISlaves. Sfruttamento e resistenza nelle
fabbriche cinesi della Foxconn”.
Il
libro, che sta riscuotendo molto interesse perché basato su una conoscenza
diretta della realtà cinese, è stato presentato nelle maggiori città europee e
non solo: abbiamo dunque pensato di proporre anche qui da noi un ciclo di
iniziative. Per avviare il dibattito, abbiamo messo insieme una piccola
antologia di scritti utili a conoscere, fuori dalle rappresentazioni mediatiche
o ideologiche, la complessa realtà sociale cinese, e la coraggiosa lotta di
questi operai contro lo sfruttamento globale. In queste righe cerchiamo di
spiegare perché questa conoscenza può essere utile anche alle nostre lotte.
Buona lettura!
Non
c’è lavoratore in Italia e in Europa che in qualche modo non abbia a che fare
con la Cina.
Per esempio
attraverso le merci “Made in China”, così a buon mercato da essere a portata del
proprio misero salario. O perché ha perso il proprio posto di lavoro,
delocalizzato in Cina, così che il padrone possa pagare salari ancor più miseri
(secondo un recente studio della CGIA di Mestre, reperibile all’indirizzo http://www.cgiamestre.com/2013/03/la-crisi-ha-fermato-la-fuga-delle-nostre-aziende/
le imprese italiane che hanno delocalizzato in Cina sono 1.103, anche se non è
chiaro l’arco temporale di questa misurazione). O magari perché il suo padrone è
proprio una qualche azienda cinese che ha investito in Italia (un quadro veloce
degli IDE cinesi in Italia si può trovare all’indirizzo http://www.firstonline.info/a/2012/11/08/i-cinesi-in-italia-storie-dimprese-una-presenza-se/024093cc-5919-4d2f-8685-94501874ebca).
Altre volte,
invece, il lavoratore italiano ed europeo ha direttamente a che fare con il
lavoratore cinese, ma lo teme o lo disprezza, perché spaventato dalla
competizione al ribasso nelle condizioni di lavoro che comporta la presenza di
tali lavoratori vulnerabili ed esposti al peggior sfruttamento. D’altra parte,
la condizione di clandestinità, l’obbligo di onorare il proprio debito di
viaggio, l’isolamento linguistico, rendono difficilissimo al lavoratore cinese
resistere a quello stesso sfruttamento e sostituire alla competizione la
solidarietà.
C’è da dire che,
almeno in Italia, la condizione dei lavoratori migranti cinesi si differenzia da
quella di molti altri migranti, in quanto questi lavoratori lavorano per lo più
in aziende di altri cinesi, magari proprio quelli a cui devono il debito, in
condizioni di pressoché totale invisibilità e servaggio. Non c’è quindi
concorrenza con i lavoratori autoctoni per lo stesso posto di lavoro, né sono
oggetto diretto della Bossi-Fini. La pressione competitiva operata dal loro
sfruttamento si esercita piuttosto nel rischio di fallimento delle aziende
autoctone che non spremono allo stesso modo la propria manodopera, mentre la
clandestinizzazione operata dalle nostre leggi repressive crea le condizioni
dello strapotere dei propri aguzzini. Nella recente inchiesta reperibile
all’indirizzo http://www.thepostinternazionale.it/mondo/italia/schiavi-cinesi-in-italia
si può trovare un rapido schizzo delle loro condizioni.
Anche
nella sfera pubblica la Cina impone la sua presenza, innanzitutto come
gigante economico la cui crescente competitività nel mercato mondiale obbliga ad
un eguale incremento di competitività i paesi europei. Processo, questo, acuito
dalla crisi economica globale, tanto che molte delle trasformazioni
istituzionali e legislative di questi ultimi anni di manovre “lacrime e sangue”
(dai tagli alla spesa pubblica alle riforme del lavoro e delle pensioni,
dall’ipotesi di unione bancaria ai processi di centralizzazione delle decisioni
economiche) non rappresentano altro la traduzione politica delle trasformazioni
economico-sociali dovute all’impatto sul mercato mondiale di questa ed altre
“economie emergenti”.
Pure quando la Cina
viene presentata come “opportunità”, nella forma di partner commerciale o di
potenziale investitore da attrarre, è chiaro chi intende beneficiare di questa
occasione. A segnalarlo bastano le parole dell’ex-premier Monti, quando, facendo
leva sulle presunte esigenze degli investitori cinesi, giustificava le manovre
del governo che andavano verso l’abolizione dell’articolo 18: “I
cinesi hanno detto chiaramente che la rigidità del nostro mercato del lavoro è
uno dei fattori che finora li ha disincentivati dall’investire in
Italia” (fonte agichina24.it). A ricordarci che il benessere di cui parlano
si erge su uno sfruttamento a ritmi “cinesi”.
Minaccia
e opportunità, paura e speranza, immagini e
sentimenti molteplici e divergenti, quanto divergenti e molteplici sono gli
interessi dei gruppi sociali investiti dalle trasformazioni prodotte dall’ascesa
del gigante asiatico. La borghesia italiana ed europea più internazionalizzata,
il grande capitale cosmopolita, annusa le occasioni di affari di questo nuovo
grande mercato, ma può vedere contemporaneamente altri affari compromessi dalla
competizione con gli altri grandi capitalisti cinesi; i piccoli e medi
padroncini nostrani rischiano di soccombere all’artiglieria pesante delle merci
cinesi a basso prezzo, ma possono anche ridurre i costi spostando almeno parte
della produzione verso est, e la paura che i propri equivalenti cinesi li
freghino sfruttando i propri connazionali si accompagna alla speranza di poter
essere loro stessi a sfruttare questa manodopera.
Per non parlare
delle conseguenze indirette dell’ascesa del Grande Dragone su parametri come il
prezzo delle materie prime, la direzione dei flussi finanziari, il corso dei
cambi, il clima e l’ambiente, ecc., che contribuiscono a scomporre e ricomporre
un quadro di interessi in continua evoluzione. Tutte queste rappresentazioni
restituiscono un’immagine monolitica di una Cina che con il suo irrompere nella
scena del sistema capitalistico globale impone necessari, inevitabili,
adattamenti. Così come da noi sono pensabili, e si mostrano, sempre e solo
divergenze componibili nel quadro di un proclamato interesse generale che non
ammette l’esistenza di un autentico, inconciliabile, antagonismo – così
all’estero non si può che vedere un oggetto coerente, che pur nella sua
mutevolezza e dinamicità si mantiene uguale a sé stesso ed è privo della
possibilità di un autentico mutamento.
Le
fratture interne alla società cinese sembrano rimanere sempre
armonizzabili: non scalfiscono la
raffigurazione unitaria proiettata dall’urgenza di farci i conti della nostra
altrettanto unita società.
Sulla
scia del più puro corporativismo, infatti, il paradigma della “Società
Armoniosa”
(come le classi
dirigenti cinesi amano presentare il loro sistema), dichiara
e ricerca a tutti i costi la conciliabilità tra capitale e
lavoro, mistificando l’incompatibilità radicale tra chi produce
e chi profitta della fatica altrui, trasfigurandola nella forma del compromesso
tra “sviluppo ed eguaglianza”, del bilanciamento tra “equità e modernizzazione”,
ecc.
Non è un caso che
la retorica della “società armoniosa” prenda piede con la presidenza di Hu
Jintao ad inizio degli anni 2000, in contemporanea con l’emergere di una nuova
composizione della classe operaia e delle sue lotte, nel tentativo di cooptarne
e sedarne gli elementi più destabilizzanti (elemento, questo delle lotte
operaie, paradossalmente assente in molte delle analisi di chi individua nella
Cina un riferimento per i percorsi di rottura dell’attuale ordine capitalistico
mondiale).
Sono
proprio le lotte di questa classe operaia al centro di quella che da alcuni è
definita “l’officina del mondo”, e che anche in
virtù di queste lotte rischia di perdere questo primato, a
essere oggetto dei materiali che pubblichiamo in occasione del
ciclo italiano di presentazione dei testi raccolti nel libro “ISlaves.
Sfruttamento e resistenza nelle fabbriche cinesi della Foxconn”. Lotte che hanno
manifestato una drammatica accelerazione negli ultimi anni di recessione
globale, portando a considerevoli conquiste salariali e
sindacali.
Anche qui, come
mostrano bene i testi che abbiamo raccolto, gli effetti di queste conquiste
sull’economia globale e quindi sui lavoratori di tutto il mondo possono essere
molteplici e contraddittori. Detto questo, la sola esistenza di questi
lavoratori nell’atto della lotta svela che quelle che sembravano irresistibili
forze economiche cieche a cui non si può che adattarsi o soccombere, sono in
realtà il frutto di uno sfruttamento a cui ci si può ribellare.
Far
proprio questo insegnamento e contribuire nel nostro piccolo a gettare le basi
perché ci si possa realmente appropriare di queste forza
comune,
superando ciò che la frammenta, è il motivo della pubblicazione di questi testi,
nonché lo scopo della nostra iniziativa.
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