giovedì 11 novembre 2010

BARILLA: AMIANTO A PERDERE. LE COPERTURE SU UNO STABILIMENTO DELL'INDUSTRIA ALIMENTARE.




http://www.italiaterranostra.it/?p=6849
di *Gianni Lannes*

Mangia sano, torna alla natura e vivi meglio. «Dal 1975 Mulino Bianco è
sinonimo di bontà e genuinità. La sua ampia gamma di prodotti da forno è
adatta a tutta la famiglia e ad ogni momento della giornata» recita lo
slogan del colosso Barilla. Mentre gli spot televisivi e patinati
offrono dal ’76, a ritmi martellanti cieli sereni della Toscana e set
cinematografici, le coperture del vasto stabilimento Barilla di San
Nicola di Melfi in Basilicata, sono a tutt’oggi di plumbeo asbesto. Una
svista, forse una dimenticanza per l’holding che fattura milioni di euro
e spende fortune per la pubblicità sui giornali e in tv? E’ sufficiente
un’accurata panoramica fotografica per accertare la pericolosa presenza
che gli enti istituzionali preposti alla tutela della salute pubblica
(manager e tecnici pagati lautamente dai cittadini-contribuenti e
consumatori) non hanno ancora verificato. Gli ondulati in fibro-cemento,
meglio conosciuti come “eternit” dal nome che, nel 1900, il suo
inventore, l’austriaco Ludwig Hatscek, diede a questo micidiale impasto
chimico di fibre di amianto (crisotilo) e cemento a lenta presa, fanno
bella mostra dal 1987 dove meno te l’aspetti. Appunto, nei 9,58 ettari
del lotto 16 di proprietà del celebre marchio alimentare. Addirittura
sulla testa di questo impianto industriale in provincia di Potenza che
vanta 7 linee produttive (fette biscottate, biscotti da colazione,
pasticceria, snack, pani morbidi, sfoglie, merende) per 65 mila
tonnellate annue di prodotto alimentare. C’è rischio sanitario per la
salute dei 500 lavoratori (di cui circa 100 stagionali) e degli ignari
milioni di consumatori? «La sicurezza dei prodotti e delle persone che
lavorano sono i presupposti di qualsiasi nostro stabilimento» asserisce
da Parma, Elisabetta Iurcev, Media Relations Manager della Barilla. In
casi del genere, tuttavia, le rassicurazioni telefoniche non bastano. E
i riscontri visivi identificano l’attuale realtà: l’amianto è presente
in notevoli quantità (diverse tonnellate) sotto forma di lastre, ma
l’Asl Venosa 1 non si è ancora scomodata per accertare approfonditamente
il livello di inquinamento delle fibre aerodisperse nell’area. Dal canto
suo la regione Basilicata non ha mai effettuato in questa zona
industriale una mappatura del territorio con presenza di amianto e un
monitoraggio epidemiologico del fenomeno. Eppure è un obbligo di legge
sancito ben 18 anni fa. In loco dal 1987 vengono prodotte le merendine
più famose d’Italia ma i tetti della fabbrica sono fatti di pericoloso
amianto, una sostanza cancerogena messa al bando nel Belpaese dalla
legge 257 del 27 marzo 1992. La ponderosa letteratura scientifica – a
partire dal 1932 – parla chiaro, basta esaminarla. Addirittura un regio
decreto del 1909 fa presente di prestare attenzione alla “lana di
salamandra”. La caratteristica filamentosa dell’asbesto è anche la causa
della sua pericolosità; il problema è che, a lungo andare, questo
minerale si sfibra dando origine a piccolissime scaglie invisibili
all’occhio umano. I frammenti polverulenti ed estremamente volatili,
possono, una volta respirati, provocare forme tumorali alle vie
respiratorie anche a distanza di decenni. Per i proprietari è un
impianto all’avanguardia: «A Melfi (PZ), gioiello industriale e
tecnologico del Sud Italia, dove produciamo anche biscotti e pani
morbidi, è installata invece la linea di produzione di fette biscottate
più grande d’Europa» si legge nel sito online del gigante
agroalimentare. Proviamo ad entrare per visionare anche le coibentazioni
interne, ma il portiere, in un pomeriggio assolato, scaccia
scortesemente il cronista all’ingresso: «Questa è proprietà privata se
ne vada». E il direttore non risponde al telefono. Con tanti saluti ai
principi aziendali: «coerenza, trasparenza e rispetto debbono guidare
ogni decisione e comportamento». Chiediamo nuovamente lumi all’addetto
stampa del gruppo internazionale in cui lavorano oltre 7300 addetti. «Lo
stabilimento di San Nicola di Melfi è per noi molto importante: ci sono
dei prodotti che facciamo solo lì; ad esempio le nastrine – rivela
l’esperta Iurcev – E’ importante perché poi magari uno pensa che le
facciamo solo al nord e le vendiamo al nord. Invece le facciamo al sud e
le vendiamo in tutt’Italia». Per la materia prima quali sono le fonti di
approvvigionamento? «Il grano tenero è praticamente tutto italiano; lo
acquistiamo prevalentemente in Puglia e Basilicata» rivela la manager
aziendale Elisabetta Iurcev. «La Barilla compra le materie prime anche
in Basilicata – puntualizza Gerardo Nardiello, segretario regionale
della Uila-Uil (Unione italiana lavoratori agroalimentari) – Si
riforniscono proprio nella zona industriale di Melfi». La Barilla si
difende certificando gli stabilimenti produttivi «rispetto allo standard
ISO 14001 allo scopo di ridurre gli impatti delle proprie attività
produttive sull’ambiente promuovendone il continuo miglioramento». Non è
tutto. A poche centinaia di metri in linea d’aria, si staglia il più
grande inceneritore di rifiuti. E’ entrato a regime un decennio fa
grazie alla Fiat che nel 2002 l’ha ceduto ai francesi dell’Edf (gestori
di centrali nucleari). L’impianto Fenice vomita nell’atmosfera e nel
sottosuolo veleni micidiali. Già, ma la Barilla fa finta di niente. La
multinazionale italiana ha chiesto alla direzione del giornale La Stampa
di sospendere la mia collaborazione. Motivazione? A quanto emerge dai
documenti ufficiali, lesa maestà. Scrivo a Mario Calabresi che ha
partecipato in prima persona ad un evento organizzato dalla Barilla. Mi
risponde tempestivamente rievocando i nostri trascorsi al quotidiano La
Repubblica, comunque negando qualsiasi pressione da Parma. Dalla
direzione amministrativa del quotidiano Fiat, l’addetto amministrativo
Alessandro Bianco, sostiene addirittura che l’amianto non c’è. Tra
grandi aziende si scambiano i favori, pur di mettere a tacere una voce
libera. Torno dopo due anni dall’inchiesta condotta e pubblicata dal
quotidiano La Stampa (11 ottobre 2008). L’amianto è sempre più friabile
e danza senza controllo. Da un cavalcavia stradale fotografo la fabbrica
mentre sopraggiunge una prima pattuglia di carabinieri a chiedere
chiarimenti. Poco dopo piomba un’autovettura della polizia con due
agenti in borghese del commissariato di Melfi. Forse non hanno letto il
fonogramma che annuncia il mio arrivo con tanto di scorta dei colleghi.
Pretendono di sapere perché immortalo il complesso industriale. Nel
frattempo transitano sotto gli occhi dei “tutori della legge”, camion
carichi di rifiuti pericolosi. Anche la Barilla ne produce: due anni fa
li ho scovati in Calabria. Alle 20,21 di martedi 7 settembre squilla il
mio cellulare di lavoro. Non rispondo. Alle 20,28 il portatile trilla
ancora. Dall’altro capo del telefono si presenta il poliziotto della
mattina. Si chiama Antonio Pennella. In sostanza mi chiede di chiudere
un occhio sull’amianto fuorilegge della Barilla; insomma di soprassedere
almeno fino ad ottobre inoltrato. Mi rivela che il direttore dello
stabilimento gli ha mostrato delle carte. Una ditta di Torino
smantellerà l’amianto che uccide entro l’anno al costo di 1 milione di
euro. Fingo di abboccare: è un vecchio trucco che pratico con successo
da un ventennio. Il 9 settembre in mattinata chiamo il poliziotto
Pennella e gli chiedo di farmi inviare le carte dal direttore dello
stabilimento. Mi risponde che non può pretenderle dall’amico direttore.
Devo fidarmi della sua parola. Ad ogni modo mi chiede ancora di
ritardare la pubblicazione di questa inchiesta, in cambio mi darà delle
dritte sulla zona. Nauseato chiudo la conversazione e mentalmente
spedisco questo sbirro di quart’ordine a quel paese. Sono come san
Tommaso: amen.

(p.s. A seguito dell’inchiesta di Gianni Lannes inerente la presenza di
amianto nello stabilimento Barilla di San Nicola di Melfi – pubblicata
dal quotidiano La Stampa l’11/10/2008 – ben 6 parlamentari del Gruppo
Democratico hanno indirizzato il 14/09/2009 ai ministri del Lavoro della
Salute e delle Politiche sociali l’interrogazione numero 4/04073.
L’iter è ancora in corso: il governo Berlusconi non risponde. Date
un’occhiata al portfolio fotografico in fondo al testo).

*Amianto, killer invisibile*

Vive nascosto sottoterra, nelle cantine, nelle tubature, nei pavimenti
di edifici pubblici. L’Italia lo ha bandito nel ’92, ma ufficialmente ne
restano in giro 32 milioni di tonnellate. E di contaminazione si
continua a morire. L’amianto è costituito da fibre piccolissime e
leggere, che si depositano su bronchi e polmoni producendo effetti
devastanti a distanza di decenni. Il mesotelioma, tumore che colpisce il
rivestimento dei polmoni (pleura) e degli organi addominali (peritoneo),
può colpire dopo quarant’anni, e uccidere in nove mesi. E non è l’unica
conseguenza mortale. C’è anche l’asbestosi (formazione di cicatrici
fibrose sul tessuto dei polmoni, che riducono fortemente le capacità
respiratorie) e il carcinoma polmonare. Un nemico invisibile ci assedia.
E’ l’amianto. Nome tecnico asbesto, dal greco “incorruttibile”,
inestinguibile, indistruttibile”. Isolante, ignifugo, fonoassorbente ed
economico. Così è stato usato a più non posso. Dalle coperture dei tetti
in eternit (cemento misto a fibre di amianto) alle piastre isolanti per
ferri da stiro, dai guanti da forno agli schermi cinematografici, dai
filtri per pipe e sigarette (noto il caso delle kent mentolate) alle
carrozze ferroviarie. E poi: phon, freni per le auto, persino assorbenti
igienici interni. Anche la plastica di alcuni giocattoli veniva
rafforzata con questo materiale. E ancora: teatri, cinema, scuole
coibentate con amianto spruzzato. Ufficialmente in 94 capoluoghi di
provincia, il 12 per cento degli edifici scolastici ne contiene ancora
ai giorni nostri. Si può trovare nell’impasto dell’intonaco, nei
pavimenti di linoleum, nelle canne fumarie, nei pannelli acustici, nelle
tubature idriche. Non c’è una mappa nazionale delle tubature colpevoli,
ma dati locali. A Bologna ci sono ancora 1.600 chilometri di condutture
in cemento amianto, tra Cesena e Forlì 2.300; in provincia di Foggia
addirittura 5 mila, a Venezia 930 e a Padova 600. Negli anni ’80
l’Italia, con le sue centomila e qualcosa tonnellate l’anno, era il
secondo produttore di asbesto in Europa dopo l’Urss. Dalle Alpi alla
Sicilia, il territorio ne è disseminato. L’Agenzia per la protezione
dell’Ambiente identifica i siti: l’ex cava di Balangero (TO) la miniera
più grande d’Europa; Casale Monferrato (AL), con più di 600 morti per
aver respirato amianto; la Fibronit di Bari, quasi 150 mila quadrati
inquinati nel centro della città e un numero imprecisato di morti e
ammalati ma non ancora bonificata; Biancavilla (CT) comune tenuto
sott’osservazione dall’Istituto Superiore di Sanità perché interamente
costruito, strade comprese, con una fibra della famiglia dell’amianto. E
poi ci sono le innumerevoli aree dimesse, più o meno riconvertite.
L’elenco si moltiplica leggendo le rassegne sindacali, i resoconti di
vedove e superstiti, i bollettini dell’Associazione Esposti Amianto, i
documenti delle cause giudiziarie. L’amianto è ovunque, e fa male.
Agli esseri umani e all’ambiente. C’è il dramma umano: 5 mila morti
all’anno in Europa, destinati quasi a raddoppiare ogni 12 mesi. Le
persone in attesa di risarcimento (le richieste di riconoscimento, quasi
tutte di prepensionamento, per esposizione all’amianto presentate
all’Inail sono quasi 300.000). E chi attende giustizia, come i 1.650
firmatari della maxivertenza amianto di Casale e Siracusa contro la
famiglia Schmidheiny, proprietaria della multinazionale Eternit. O come
le vedove degli operai morti per mesotelioma a Monfalcone, a Pistoia, al
Poligrafico dello Stato di Foggia. Le richieste si moltiplicano. Finora
gli esiti sono contrastanti. E c’è il problema ambientale, con il
dilemma di come smaltire quei 32 milioni di tonnellate che ancora
avvelenano l’Italia. “Miliardi di metri quadrati di eternit esposti alle
intemperie si stanno sfarinando, con rilascio di fibre nell’ambiente”
denuncia Bruno Pesce, coordinatore del comitato vertenza amianto di
Casale. E sono le fibre respirate a causare, a distanza di decenni, il
tumore. E poi c’è il problema globale. C’è ancora chi produce ed
esporta, come Russia e Canada ma anche l’Italia fino al 2006. Sappiamo
molto ormai ma in ritardo. Era il 1992 quando l’Italia, con la legge
257, vietò estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e
produzione di amianto e prodotti che lo contengono. Che l’amianto fosse
pericoloso si sapeva almeno dal 1965, anno di pubblicazione degli atti
della conferenza della New York Academy of Sciences sui suoi effetti
biologici. Ed è dal 1976 che l’Agenzia internazionale per le ricerche
sul cancro di Lione attesta che “tutti i tipi di amianto sono
cancerogeni, e qualunque livello di esposizione nocivo”. Affermazione
che neanche oggi viene presa per buona: ai fini pensionistici, l’amianto
è pericoloso solo se un centimetro cubico d’aria contiene 0,1 fibre (100
fibre/litro). E se è stato respirato otto ore al giorno per dieci anni.
In Italia esiste un documento trovato negli uffici della miniera di
Balangero e conservato negli Archivi di Stato di Torino, che prova un
accordo per rallentare i tempi legislativi. E’ il resoconto di una
riunione informale tenuta il 17 novembre 1977-78 (questa la data
ipotizzata dalla ricostruzione) all’Assocemento di Roma. Secondo gli
appunti, Angellotti, allora direttore dell’amiantifera di Balangero,
“esprime la preoccupazione dei soci Ania (Associazione nazionale imprese
assicuratrici) per l’iter della proposta di legge sull’amianto. Il
ministro del lavoro ha chiesto all’Enpi (Ente nazionale prevenzione
infortuni) di parlare dei limiti delle polveri. Il dottor Annibaldi
della Confindustria è intervenuto sull’Enpi per rallentare l’emissione
di normative sui limiti”. L’Enpi avrebbe accettato e “il ministro della
sanità Anselmi ha confermato tale fatto”. Confindustria, ministero della
Sanità e del Lavoro ed ente per la prevenzione degli infortuni
coalizzati sulla pelle dei lavoratori. I fatti: le prime limitazioni per
l’uso della crocidolite (il tipo di amianto più pericoloso) sono dell’86
(8 anni dopo l’incontro in questione); l’Europa aveva chiesto agli Stati
membri di proibire l’amianto nell’83, mentre la legge italiana è del
’92. Tanto che la Corte di giustizia europea ci ha condannati per non
aver recepito la normativa entro i tempi canonici. Poi finalmente la
legge è arrivata, e con lei i buoni propositi. Come quello di mappare
tutto il territorio è di istituire un registro italiano per il
mesotelioma, il cancro dell’amianto. La mappatura è un sogno senza
soldi. Solo quattro milioni e mezzo di euro sono stati stanziati dal
ministero dell’Ambiente. Altrettanti verranno dati a chi ha già
presentato le priorità di bonifica: attività frammentaria e delegata
alle Regioni, che in qualche caso si sono mobilitate e in tanti altri
no. Il modello è l’Emilia Romagna, che ha già censito edifici pubblici e
privati e aziende che hanno usato amianto. Il risultato? Quasi duemila
edifici positivi, su oltre 33 mila. C’è amianto nelle caldaie, nelle
cantine, nei pavimenti, nei depositi, nei sottotetti. E in un terzo
delle aziende. E’ ancora inadempiente il Lazio e non c’è mappatura né
registro per i mesoteliomi. Sopravviviamo nell’emergenza. In Ciociaria,
oltre a essere aumentati i morti per mesotelioma ci sono ancora casi di
asbestosi”. E’ andata meglio all’idea del Registro Nazionale dei
Mesoteliomi, nato presso l’Istituto Superiore per la Prevenzione e la
Sicurezza sul Lavoro; oggi è presente in 16 regioni, e raccoglie i dati
sulla diffusione del tumore in Italia. “I casi sono un migliaio l’anno”
sintetizza Fulvio Aurora, segretario nazionale dell’Aea. “Secondo le
stime, però, ci sono altri tremila morti l’anno per malattie legate
all’amianto; 209 mila i potenziali esposti alla fibra”. Il dramma non si
ferma ai lavoratori. Parecchie mogli sono morte di mesotelioma per aver
lavorato le tute impolverate dei mariti. “In Veneto”, segnala
l’epidemiologo Enzo Merler, “il 23 per cento dei casi di mesotelioma
femminili è causato da esposizioni domestiche o ambientali” E a Casale
su 600 morti, 200 non hanno mai lavorato l’eternit. Una volta effettuata
la mappatura, bisogna decidere se e come bonificare. Non sempre,
infatti, la bonifica è la soluzione migliore, perché produce rifiuti e
rilascia fibre nell’atmosfera. Se l’amianto non è friabile, è
controproducente rimuoverlo, avvertono gli esperti. Una volta decisa la
bonifica, come farla è un rebus: incapsulamento, confinamento, torce al
plasma. I siti di stoccaggio sono pochi, il trasporto e lo smaltimento
hanno costi elevati. A volte, chi deve bonificare la casa o il cortile
sotterra l’amianto dove può o lo lascia nelle discariche abusive. Vanno
allora favoriti gli incentivi fiscali (oggi sono del 36 per cento) e
realizzati servizi porta a porta di trasporto e smaltimento gratis. Ma
quando? E che dire della mappatura delle navi incompleta? Su quante c’è
ancora amianto? E perché il materiale continua a passare dai porti
italiani? L’uso del crisotilo (amianto bianco), invece, è ancora
tollerato in molti paesi del vecchio continente. Al momento soltanto 14
prodotti contenenti questa fibra sono stati messi fuorilegge dall’Ue e
solo 9 (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania,
Italia, Olanda, Svezia) hanno imposto un bando unilaterale su tutti i
tipi di amianto. Il crisotilo, appunto, mette in gioco enormi interessi
economici perché rappresenta il 95 per cento della produzione mondiale.
Il 15 settembre 1998 il Comitato scientifico dell’Ue ha reso pubblico il
risultato di un esame specifico che ribadisce: «esistono prove
scientifiche sufficienti per affermare che tutte le forme di amianto,
crisotilo compreso, sono cancerogene per l’essere umano». Nonostante le
evidenze, le proteste politiche e le minacce economiche di chi si oppone
al bando (peraltro molto energiche anche nel Belpaese) non scemano.
L’azione di lobbyng è giocata soprattutto dal Canada e dalla Russia.
«Tentano ancora una volta di fare la distinzione fra tipi di amianto –
puntualizza Fulvio Aurora di Medicina Democratica -. Distinguono
l’amianto cattivo (crocidolite e anfiboli in generale) da quello buono
(crisotilo), cercando di far passare l’idea che questo può essere
utilizzato in modo sicuro». Le pressioni a suon di dollari dei potentati
in campo rappresentano una minaccia per l’obiettività delle
organizzazioni scientifiche internazionali. Infatti, avverte lo studioso
Barry Castleman «sono stati compiuti ingenti sforzi da parte
dell’industria dell’amianto per fare in modo che documenti favorevoli ai
propri interessi fossero pubblicati come rapporti ufficiali
dall’International Program on Chemical Safety, dall’Organizzazione
mondiale della sanità e dall’International Labour Office».

*Interrogazione parlamentare sul caso Barilla
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