lunedì 14 maggio 2012

"Che senso ha morire per il lavoro"- di Ilvo Diamanti

su Repubblica del 14  maggio

 VIVIAMO tempi violenti, pervasi, come ha affermato ieri Mario Monti, da una "profonda
tensione sociale". Di cui è indice - e fattore - il riemergere del
terrorismo. Che usa la vita e ancor più la morte come un messaggio. Uno
spot da proiettare nel circuito - e nel circo - mediatico. Senza il quale e
al di fuori del quale: nulla esiste. Lo stesso avviene, d'altronde, nel
mondo del lavoro. Dove togliersi la vita fa notizia. Molto più che perderla
lavorando. I morti sul lavoro, infatti, sono un fenomeno antico, esteso e
in costante aumento. (Ce lo rammenta la preziosa opera di documentazione e
informazione svolta dall'Osservatorio Indipendente di Bologna di Carlo
Soricelli). E, tuttavia, quasi invisibile, se non in casi eccezionali -
quando muoiono in tanti in un colpo solo. Come nel caso della Thyssen Krupp
di Torino, nel 2007. I suicidi, invece, suscitano grande attenzione ed
emozione, in questi tempi. I media li inseguono, giorno dopo giorno.
Offrono l'immagine di un'onda anomala e senza fine. Anche se i dati
raccontano una storia diversa. Infatti, come osserva Marzio Barbagli, sulla
base delle statistiche dell'Istat: "I suicidi in questa categoria sociale
c'erano anche negli anni passati, più o meno con la stessa frequenza".
Anzi, dal 2009 ad oggi, sarebbero diminuiti. Tuttavia, la visibilità
mediale di un fenomeno non è mai casuale. Basti pensare allo spazio
riservato dai media alla criminalità comune, trattata come un serial,
sceneggiato e riprodotto dai Tg e dai talk del pomeriggio e della sera.
Senza soluzione di continuità. Al di là di ogni variazione statistica del
fenomeno, riflette, soprattutto, la passione dei media per la cronaca nera
tradotta in "romanzo criminale". Basti pensare, ancora, allo spazio
riservato dall'informazione all'immigrazione, negli anni fra il 2007 e il
2009. In seguito ridimensionato drasticamente. Una tendenza dettata da
ragioni - e pressioni - politiche più che da mutamenti quantitativi dei
flussi migratori. Penso, invece, che la visibilità riservata ai suicidi, in
questa fase, oltre che dalla drammaticità dei singoli episodi, più che da
ragioni "politiche", sia dettata - e moltiplicata - dall'angoscia prodotta
dalla crisi economica. Il principale e vero motivo della "tensione
sociale", a cui ha fatto riferimento il Presidente del Consiglio. Per
riprendere i dati dell'Osservatorio sull'In-Sicurezza (curato da Demos,
l'Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis), le "paure economiche"
sono considerate la principale emergenza dal 60% degli italiani (aprile
2012). Un sentimento degenerato in pochi anni. Insieme al senso di declino
sociale. Rammentiamo: nel 2005 la quota di persone che si "sentiva" di
classe sociale bassa o medio-bassa era il 25%. Oggi il 53%. I suicidi dei
lavoratori e ancor più dei piccoli imprenditori "drammatizzano", in senso
emotivo ma anche narrativo, questa "tensione sociale". Sul piano
professionale e geo-economico. Lo "sciame dei suicidi" ri-prodotto dalle
cronache, infatti, sembra inseguire le zone forti dello sviluppo degli
ultimi decenni. Le province del Nordest e, in generale, del Nord. Le aree
che, dopo gli anni Settanta, hanno conosciuto una crescita economica
violenta. Dove si è affermato una sorta di "capitalismo dell'uomo
qualunque", come l'ha definito Giorgio Lago. Un modello "postfordista" (per
citare Arnaldo Bagnasco), che ha coinvolto e mobilitato la società in modo
estensivo. Perché, a differenza di altrove, le aspettative di reddito e di
carriera non erano affidate al lavoro dipendente - nella grande fabbrica o
nel pubblico impiego. Ma al lavoro in-dipendente. Al passaggio da operaio
ad autonomo. "Paroni a casa nostra", in Veneto, non significa solo
indipendenza territoriale. Ma vocazione all'indipendenza personale e
familiare. Gran parte delle aziende, d'altronde, sono sorte e si sono
sviluppate attraverso rapporti personali. Tra persone che si conoscono e si
frequentano, prima durante e dopo il lavoro. Aspirano a migliorare la
propria posizione e condizione, con lo stesso obiettivo. Diventando, a loro
volta, "paroni a casa propria". Il passaggio da operaio a piccolo
imprenditore, in questo mondo, è breve. La fatica, il rischio: gli stessi.
Cambia il ruolo sociale. Come rammenta la vicenda dell'artigiano-muratore,
raccontata da Gigi Copiello, che sul furgone da lavoro scrive: Bruno da
Cittadella, dottore in malta. (Titolo del libro appena uscito per
Marsilio). Cioè, artigiano, ma anche specialista. Per usare un termine di
moda: tecnico. Il successo leghista, negli anni Novanta, in queste zone e
fra queste categorie professionali, si spiega anche così. Con la capacità
della Lega di dare visibilità e voce a soggetti e territori divenuti, in
breve, economicamente centrali, ma ancora politicamente periferici.
Guardati - anche sui media - con sufficienza e ironia. L'enfasi suscitata -
oggi molto più di ieri - dai suicidi dei piccoli imprenditori e nelle aree
di piccola impresa riflette la sensazione, per alcuni versi la paura, che
questo modello sia in declino. Oltre metà degli italiani, nel 2006, ambiva,
per sé e i propri figli, a un "lavoro in proprio o da libero
professionista". Oggi questa componente è scesa a poco più di un terzo
(Demos-Coop, aprile 2012). Le cause "materiali": la disoccupazione, il peso
schiacciante delle tasse e la caduta dei mercati, dunque, alimenta
sicuramente l'angoscia sociale che si respira. Ma c'è di più. C'è la paura
del baricentro sociale, un tempo imperniato sulla grande fabbrica,
spostatosi, poi, sul lavoro autonomo e sulla piccola impresa. Un modello
fondato, comunque: sul "lavoro". Riferimento dell'identità e della coesione
sociale, prima che fonte di reddito. Mi torna in mente la reazione di
Giorgio Lago a un articolo nel quale, dieci anni fa, registravo la
crescente stanchezza fra i lavoratori e i piccoli imprenditori del Nordest.
Alla ricerca di altri motivi di soddisfazione, oltre il lavoro. Rispose,
allora, Lago (sul Mattino di Padova): "Se sono stanchi si riposino. Vadano
a dormire prima, la sera. E poi riprendano il lavoro. Perché senza il
lavoro, senza la fatica: non hanno speranza. Non hanno futuro". È questo
che oggi rende così visibile ciò che fino a ieri non lo era. "Morire per il
lavoro". In qualche misura, poteva essere un prezzo accettato e perfino
necessario, per una civiltà laburista. Ma se il lavoro e la fatica non
bastano più: cosa terrà insieme la società? E, prima ancora, che "senso" ha
la vita?
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*Cosa terrà insieme la società se il lavoro e la fatica non bastano più si
chiede Diamanti. Il lavoro è fondamentale per l'equilibrio psicofisico di
ogni persona, perderlo vuol dire minare quest'equilibrio, ma c'è chi la
vita la perde per mantenerlo e spesso si rinuncia alle più elementari
tutele per conservarlo. Sentire minacciare questo valore primario rende
feroce, cattiva e fragile la società e la singola persona e fa chiudere
tutti in un individualismo egoista che ci rende infelici. Cosa fare allora?
Rivedere alle radici il modo di produrre e di considerare il lavoro per
quello che è. Un valore primario che non può essere solo nelle mani di
alcuni che sono al vertice della piramide. Il liberismo selvaggio di questi
ultimi vent'anni ha creato solo una casta sacerdotale che ha come unico dio
il denaro, e che dispone e controlla la ricchezza. Per tutti gli altri
povertà e macerie. Il lavoro come una variabile del mercato. Rimettere
l'uomo e il lavoro al centro di una società più giusta ci renderà tutti più
felici, soprattutto se il mercato sarà una componente importante ma non
dominante della società. 


Carlo Soricelli Osservatorio Indipendente di
Bologna morti sul lavoro*

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