La Procura ha messo i sigilli ai vecchi stabilimenti dell'azienda dismessa di Elio Graziano, chiusa dal 1990 dopo il crac: "L'area rappresenta un gravissimo pericolo per la salute e l'incolumità pubblica". I periti dei pm: "Per i lavoratori assenza totale dei dispositivi di protezione"
di Vincenzo Iurillo | 11 giugno 2013
La fabbrica che mette i brividi nella Pianodardine di Avellino. La fabbrica della morte da amianto. Nove casi. Per ora. E altri 140 operai ammalati. Che tremano. Sono gli ex dipendenti di Isochimica, l’azienda dismessa di Elio Graziano, chiusa dal 1990 sotto il peso di un crac economico, che negli anni Ottanta ha lavorato alla coibentazione e scoibentazione di circa 2500 carrozze delle Ferrovie dello Stato. Ripulendole dall’amianto che poi veniva interrato ‘a mani nude’ in diversi punti dello stabilimento o impastato in cubi di cemento dimenticati da decenni alle intemperie.
Nei giorni scorsi la Procura di Avellino, con un provvedimento firmato dal procuratore capo Rosario Cantelmo e dai sostituti Elia Taddeo e Roberto Patscot, ha sequestrato con procedura d’urgenza le rovine dell’ex stabilimento perché – come riporta un decreto di sequestro lungo 126 pagine e notificato a 24 indagati – l’amianto abbandonato nell’area rappresenta ormai un gravissimo pericolo per la salute e l’incolumità pubblica. Le fibre possono in ogni momento liberarsi nell’aria, e raggiungere gli insediamenti abitativi che si affacciano sulla via di ingresso dell’opificio, e la scuola elementare a meno di cento metri in linea d’aria. Mentre a poco più di 200 metri c’è la stazione ferroviaria.
Tutti in pericolo, a cominciare dagli ex operai, che hanno lavorato, si legge in una consulenza medica dei professori Gualtiero Ricciardi e Umberto Moscato dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, “nell’assenza pressoché totale dei dispositivi di protezione individuale (quando presenti) e collettivi”. Con carenze clamorose nei sistemi di aspirazione, di abbattimento delle polveri, nelle strutture di decontaminazione. Terribili le conclusioni per i quasi 200 lavoratori che si sono avvicendati nello stabilimento: “E’ possibile affermare che per tutti i soggetti esposti sussiste pericolo di vita”. Il rischio è quello di contrarre mesoteliomi pleurici o peritonali, o un cancro al polmone. “Non è possibile escludere – si afferma nella relazione – l’insorgenza di neoplasie correlabili ad esposizione ad amianto anche in altri organi od apparati diversi”.
La bonifica trascinata in venti anni di ritardi ed inerzie si è rivelata poco più di una farsa. Non si è riusciti nemmeno a stabilire il numero preciso dei cubi di calcestruzzo e amianto stoccati sul piazzate. Trecento, secondo una relazione del 2002. Ben 347, secondo un documento dell’Arpac di due anni dopo. Che diventano 489 in un censimento del 2007, poi 509 in una tabella riassuntiva e 525 nelle conclusioni. Addirittura 681 secondo il dato di un medico messo a verbale di una riunione al Comune di Avellino nel giugno 2010. La spiegazione è tra le righe del decreto di sequestro: una fitta vegetazione, sviluppatasi con l’incuria della fabbrica, avrebbe nascosto per anni alcune centinaia di cubi. Così come è stata dimenticata l’esatta ubicazione di uno dei quattro punti di interramento dell’amianto. Gli operai non la ricordano con precisione, forse occultata da un fabbricato costruito successivamente.
Tra i 24 indagati ci sono il titolare di Isochimica, il management dell’azienda, funzionari comunali, Asl e Arpac che hanno sottovalutato la situazione. E i componenti di una vecchia giunta comunale del 2005, capeggiata dal sindaco Giuseppe Galasso, di cui faceva parte anche il deputato Sel Giancarlo Giordano. Sono accusati di aver deliberato la sospensione della procedura di bonifica ‘in danno’, affidandola alla curatela fallimentare di Isochimica senza ottenere da loro una reale assicurazione su modi, tempi, procedure e, soprattutto, garanzie finanziarie dell’intervento. La Procura è convinta che quella delibera sia stata approvata per liberare l’amministrazione comunale dai problemi finanziari connessi all’obbligo di bonificare e mettere in sicurezza l’area, che ricadeva sull’ente pubblico in caso di inerzia dei privati. La questione è stata di fatto “scaricata” su una curatela fallimentare che, a sua volta, era anch’essa priva di mezzi e fondi per bonificare, anche perché il suo scopo era diverso: recuperare risorse per soddisfare i creditori. Così l’amianto è rimasto lì. All’aria aperta, nei cubi lasciati a marcire.
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