domenica 20 gennaio 2013
Atti dell'Assemblea nazionale della Rete per la sicurezza sul lavoro e nel territorio- Seconda parte
Dopo l’introduzione ha portato il saluto all’assemblea il compagno SANDRO BRUZZESE, segretario
dell’USI, che ha anche auspicato una migliore organizzazione della Rete per la sicurezza sui posti di lavoro a livello nazionale, per renderla più solida e più partecipata.
Per Rete nodo BERGAMO SEBASTIANO LAMERA, OPERAIO DALMINE
Il comparto siderurgico riveste un ruolo strategico nell’economia nazionale ma anche per tutta la classe operaia e il “caso” nazionale ILVA ha rimesso al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica questa realtà, offrendo alla Rete nazionale per la sicurezza l’opportunità di rilanciare la sua battaglia per una rivoluzione politica e sociale necessaria per mettere al primo posto la sicurezza e non il profitto.
Basta leggere il comunicato stampa del 26 novembre di Confindustria per capire la partita nazionale in gioco all’Ilva di Taranto: “privare il nostro Paese della più grande acciaieria di Europa, con imponenti ripercussioni sull’occupazione e, più in generale, su tutta l’economia italiana”.
Nel ciclo della produzione di acciaio la condizione operaia in termini di sfruttamento, sicurezza, nocività è sicuramente tra le più pesanti e usuranti, sia in rapporto al numero dei suoi addetti circa il 10 % rispetto al settore dell’industria dei metalli ma anche per la presenza prevalente di industrie di grandi dimensioni che questo ciclo richiede e ai suoi riflessi sugli operai occupati e nel territorio sulla popolazione e sull’ambiente. Questi due elementi ci spiegano perché nelle fabbriche siderurgiche, all’interno della logica del sistema di produzione capitalistico che si fonda sull’estrazione del profitto dal sangue dei lavoratori, si manifesta ancora più chiaramente, nella contraddizione capitale-lavoro, che nocivo è il capitale e non la fabbrica.
Ma allo stesso tempo, storicamente, gli operai siderurgici sono sempre stati le avanguardie nella lotta per la sicurezza, contro la monetizzazione della nocività, anche perché le grosse concentrazioni operaie dei poli siderurgici hanno permesso,attraverso rapporti di forza imposti con scioperi e mobilitazioni, rivendicazioni avanzate, fino ad arrivare negli anni passati al CCNL della siderurgia, che oltre ai miglioramenti economici aveva introdotto, indennità turni, indennità acciaieria, ma anche e soprattutto una sorta di controllo sul ciclo produttivo attraverso le commissioni sulla sicurezza. Queste intervenivano, sui ritmi, sulla sicurezza, fino ad arrivare a valutare l’ergonomia della postazione di lavoro e delle varie attività previste nelle diverse mansioni, l’inchiesta e l’intervento preventivo tra gli operai sugli infortuni e sulle malattie professionali, costringendo anche gli enti preposti, i medici, gli specialisti della sicurezza ha mettersi al servizio di questa battaglia.
Non è un caso che lo Stato e i governi (come all’ILVA) con l’avallo dei sindacati confederali si sono prodigati per portare a compimento i processi di privatizzazione della siderurgia negli anni passati (Prodi in testa), che, con la scusa dell’Europa e della conseguente produzione di acciaio da regolamentare e razionalizzare, da un lato hanno regalato ai privati l’industria strategica per l’economia del paese, e dall’altro, azzerato le conquiste contrattuali degli operai attraverso accordi sindacali che di fatto hanno uniformato in peggio le condizioni di lavoro di tutta la categoria.
Risultati ottenuti grazie a pesanti piani di ristrutturazione che hanno seguito queste privatizzazioni con diminuzione degli operai e aumento dei ritmi e della produzione e quindi dei profitti (basta vedere i record di utili dei padroni Riva e Rocca per la Dalmine,etc.), con l’aziendalismo e il produttivismo sostenuti dai sindacati confederali, che sempre più spesso per fare passare tra gli operai l’ennesimo peggioramento hanno usato l’argomentazione che “..il privato non è come il pubblico se non guadagna se ne va in altri paesi..”.
Questa situazione ha un suo riflesso diretto sulla condizione di mancanza di sicurezza che nel tempo si è venuta a creare. Infatti secondo dati Inail del 2008, la metà degli infortuni mortali è concentrata nella siderurgia, così come il 75% degli altri infortuni, per non parlare delle malattie professionali che non vengono conteggiate (amianto, fumi, rumore, vibrazioni…etc.); insomma il rischio di infortunarsi nella metallurgia è particolarmente elevato.
Con questo non si vuole affermare che quando le fabbriche erano pubbliche non vi era sfruttamento o nocività, ma al contrario che la lotta operaia in queste fabbriche è centrale ieri come oggi per ottenere il massimo della sicurezza e della messa a norma degli impianti, pagata da padroni e governo e non dai lavoratori.
E qui ritorniamo alla battaglia nazionale da fare all’ILVA, dove il segnale che viene dato dalle istituzioni come esempio per tutti i padroni è quello, attraverso il decreto-golpe, di lasciare mano libera ai padroni di fare i loro profitti e di riservare lavoro forzato e sotto ricatto agli operai: in sostanza la sicurezza è subordinata alla legge del profitto.
Oggi alla Tenaris Dalmine a fronte di un piano di ristrutturazione con 740 esuberi (usciti 390) che va avanti da 3 anni, la produzione ha segnato record con conseguenti utili miliardari e nello stesso tempo fim-fiom-uilm hanno fatto un accordo per far entrare giovani apprendisti (anticipando la riforma Fornero che indica come norma questo tipo di contratto). Così come ci sono reparti con macroscopiche problematiche di sicurezza dovute al ciclo produttivo e alle attrezzature e macchine antiquate, in cui invece di intervenire subito per rimuovere queste problematiche, si aumentano il numero di pezzi da fare, ossia la produzione. Ovviamente delle problematiche di sicurezza sono a conoscenza tutti, azienda e sindacati; allora l’azienda per far vedere agli operai che è interessata alla sicurezza ha inventato la cosiddetta “ora sicura”, un giorno a settimana per 1 ora i responsabili della produzione vanno nei reparti segnano le anomalie riscontrate parlando con gli operai. Risultato, si continua a lavorare nelle stesse condizioni, dato che i tempi per intervenire si dilatano e anche perché i soldi per fare gli interventi di sicurezza sono determinati da un budget risicato, e intanto si continua a produrre.
La “macchina della sicurezza aziendale” non perdona ed è molto articolata, ma il suo scopo è quello di scaricare sugli operai la responsabilità degli infortuni o comunque far passare tra gli operai che chi si infortuna danneggia anche te, non solo in termini economici in quanto esiste un premio legato agli infortuni, ma anche in termini ideologici in quanto l’infortunio pesa sull’assenteismo e si sa che “chi si fa male è perché ha dato troppa confidenza all’impianto e non ha seguito la procedura”, che tutti sanno che è in contrasto con i ritmi della produzione.
Ultimamente, oltre al consueto interrogatorio che segue il rientro dall’infortunio ed alla tendenza di alcuni operai a mettersi in malattia, i responsabili aziendali aspettano in portineria l’operaio che rientra dal pronto soccorso esterno, dove ha aperto l’infortunio, per chiedergli di rinunciare ai giorni di prognosi in cambio di uno spostamento temporaneo in ufficio, facendo risultare così a zero giorni invalidanti. Oppure se l’infortunio non è grave spingono l’operaio ad andare il giorno dopo al pronto soccorso aziendale dove è ovvio che la tendenza è quella di sottovalutarne l’entità, poiché sotto i 3 giorni di prognosi non vi è obbligo di denuncia all’INAIL ed in questo modo nelle statistiche aziendali si fa risultare che la percentuale di ore perse per infortuni su quelle lavorate è diminuita.
Questo risultato è conseguenza di anni di azione aziendale, che va dai corsi ai nuovi assunti, alla minaccia di test tossicologici e alle contestazioni disciplinari a chi si infortuna, ma anche dalla compartecipazione a questa logica da parte degli RLS, che non sono presenti quando si fanno i rilievi ambientali, che non scrivono più neanche un comunicato quando avviene un infortunio, insomma un esercito senza armi.
Nei casi in cui gli operai si sono rivolti allo Slai Cobas presente in fabbrica per delle sanzioni dopo un infortunio, il lavoratore ha sempre vinto e la sanzione è stata tolta, dato che è facile dimostrare che l’organizzazione del lavoro e le pratiche operative sono inapplicabili con i ritmi della produzione e quasi sempre dopo un infortunio vengono rimossi i rischi che lo hanno causato.
Così come è stata ancora l’azione di denuncia dello Slai Cobas che, grazie alle segnalazione di attivisti operai anche della Fiom, è riuscita ad inchiodare l’azienda, e in particolare RSPP, alle sue responsabilità per l’omicidio bianco di un giovane operaio neoassunto investito da un camion di un’impresa “esterna”. L’esposto del Cobas e il buon lavoro effettuato dal sopralluogo dei tecnici dell’ASL, ha portato la vicenda in tribunale davanti al giudice, che nonostante la strenua opposizione dell’azienda ha accettato lo Slai cobas come parte civile riconoscendo il suo lavoro in fabbrica per la sicurezza. Assenti tutti gli altri sindacati di fabbrica - Fiom compresa - mentre vari lavoratori e un RLS Fim viene indicato dalla difesa dell’azienda come testimone.
Inutile il ricorso dell’azienda fino alla Cassazione, che conferma quanto stabilito dalle sentenze di 1° e 2° grado che affermano la prioritaria responsabilità della Dalmine.
Molte segnalazioni ed esposti, sia all’asl che al tribunale sulle condizioni in reparto, come incendi al forno, fumi per mancanza aspiratori, sostanze tossiche di verniciatura, gru malfunzionamenti etc., non hanno, invece, dato esito positivo. Sia perché l’Asl mette al primo posto la tendenza alla conciliazione tra le parti e al ruolo interno degli Rls prima di intervenire, sia perchè la magistratura avrebbe sicuramente bisogno di un pool ad hoc (vedi Thyssen-Guariniello) per questo genere di interventi, così come la corsia preferenziale per i processi legati agli infortuni che attualmente vengono gestiti dal giudice come ordinaria amministrazione.
Dall’altro per ottenere questi risultati serve la presa di coscienza e mobilitazione degli operai.
Quando questa c’è stata, ad esempio nella battaglia per il riconoscimento dell’esposizione al rischio amianto iniziata nel 1998 alla Dalmine grazie anche agli operai Ilva e al Cobas di Taranto che ci hanno indicato la strada, i risultati si sono ottenuti nonostante all’inizio i confederali, Fiom in testa, sostenessero che tali “benefici” previdenziali spettassero solo agli operai che producevano l’amianto, benchè proprio dei loro ex delegati fossero morti per mesotelioma. Per farla breve questa campagna che ha preso il nome di “Bastamianto: contro la nocività del capitale”, e che è durata parecchi mesi ha portato gli operai a toccare con mano il ruolo connivente anche delle istituzioni preposte, dall’ufficio tecnico Contarp dell’Inail che negava la situazione ma che si è dovuto ricredere quando una delegazione di operai ha messo sul tavolo nei suoi uffici pezzi di coperte di amianto che usavano nei reparti.
Ritornando alla questione Ilva ed ai suoi riflessi nella siderurgia e non solo, è bene segnalare la posizione dell’amministratore delegato della Tenaris Dalmine che, durante un incontro con i dipendenti ad una domanda sulla questione Ilva e sul riflesso ambientale della fabbrica nel territorio di Dalmine e dintorni (dove vi è un’autostrada, un inceneritore, un’azienda chimica), chiama in causa un esperto che parla di dati di emissione controllati secondo le norme europee e disponibili su internet, e termina con una battuta banale stile Riva, dicendo: “non fabbrichiamo cioccolatini ma acciaio”. Ma proprio per questa ragione gli investimenti per la sicurezza dovrebbero essere più alti rispetto ad una fabbrica “normale”!
L'assemblea ha portato la denuncia dell'ennesima strage operaia per il profitto dei padroni e la propria solidarietà agli operai del BANGLADESH, dove a fine novembre, a Dacca, morirono bruciati vivi in una fabbrica tessile in 110, di cui la maggior parte donne che producevano vestiti per il mercato occidentale.
Il governo, che ha dichiarato il lutto nazionale per la più grave «disgrazia industriale» nel Paese, è accusato di ignorare le condizioni dei milioni di operai che per 37 dollari al mese (salario minimo, spesso non rispettato) si ammazzano di lavoro o muoiono in incidenti nelle 4 mila fabbriche di abbigliamento del Paese.
«Trappole mortali » le chiamano gli attivisti locali, sostenuti da alcune Ong internazionali tra cui la Clean Clothes Campaign (Ccc) con base a Amsterdam. «Solo negli incendi in
fabbrica almeno altre 500 persone sono morte in Bangladesh dal 2006», sostiene la Ccc, che ricorda come il problema sia esteso all’intera regione. Due mesi fa a Karachi, Pakistan, sono morti tra le fiamme altri 289 operai.
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