martedì 22 gennaio 2013

GOODYEAR, ASSOLTA LA FABBRICA DELLA MORTE


Da: Assemblea Lavoratori Autoconvocati assemblealavoratori@libero.it

Oggetto: GOODYEAR, ASSOLTA LA FABBRICA DELLA MORTE

Da: http://vimeo.com/56106525
di Laura PesinoFausto

Ribaltata la sentenza di I grado contro i capi dello stabilimento di Latina. In un documentario la controinchiesta
Se n'è andato il primo giorno del nuovo anno.
Ventiquattr'ore prima i medici avevano avvertito la famiglia che il caso era ormai senza speranza. Come se ci si potesse poi davvero preparare a una morte che si credeva scampata dieci anni fa. Aveva 54 anni e un tumore allo stomaco che lo ha devastato. Ed era l'unico ex operaio Goodyear rimasto in vita tra le decine di altri compagni i cui nomi figurano nel lungo elenco di morti del primo processo penale celebrato in Italia contro una multinazionale della gomma.
Omicidio colposo plurimo e lesioni plurime aggravate. Nove imputati, tutti ex dirigenti, presidenti e direttori di stabilimento della Goodyear Italia in servizio dagli anni '70 al '99. Fausto aspettava con ansia e timore questa sentenza di appello, lui che non aveva mai perso un'udienza, sempre in prima fila, a zittire giudici e avvocati raccontando le condizioni di lavoro in questa fabbrica di morte, il nero che si attaccava sulla pelle e intorno agli occhi, le tute impregnate, l'aria irrespirabile densa di polveri. Ma non ha fatto in tempo.
C'erano i suoi figli ad ascoltare i giudici della prima sezione penale della Corte d'Appello di Roma pronunciare queste parole: assolti perché il fatto non sussiste. E' una mannaia caduta sopra la testa delle mogli e dei figli di oltre 200 morti di lavoro, dopo tredici anni di battaglie legali e civili e dopo una condanna in primo grado a 21 anni di carcere complessivi.
Michael Claude Murphy, Antonio Corsi e Adalberto Muraglia non sono colpevoli delle morti di cui erano accusati. Per uno solo degli ex dirigenti Goodyear, Perdonato Palusci, la condanna di primo grado, a un anno e sei mesi, è stata confermata, ma legata a una soltanto delle parti civili coinvolte nel processo. Per gli altri cinque imputati, gli americani, tutti “irreperibili” e condannati in contumacia in primo grado, l'udienza di appello sarà fissata nei prossimi mesi.
Ma per le famiglie degli operai la speranza è ora appesa al filo di un ricorso in Cassazione, che i legali di parte civile, Luigi Di Mambro, Cristina Michetelli, Michela Luison e Mario Battisti, presenteranno non appena saranno note le motivazioni di questa sentenza che ha rovesciato quella pronunciata nel 2008 dal tribunale di Latina. Passerà altro tempo prima di veder scritta la parola fine.
Si ricomincia da capo. Perché questa è la storia di un gruppo di operai e delle loro famiglie che hanno deciso di fare la guerra a un colosso americano e per loro la strada è tutta in salita.
Nelle aule di tribunale hanno portato le loro storie, le loro malattie, le cartelle cliniche degli ospedali che attestavano tumori e neoplasie e i libretti sanitari di fabbrica compilati a ogni visita medica con la stessa frase: “Nulla di rilevante”.
La Goodyear in Italia era arrivata nel '65 con i fondi della Cassa del Mezzogiorno, scegliendo il piccolo comune di Cisterna, in provincia di Latina, avamposto del Centro Sud. Per decenni è il simbolo dell'industrializzazione di un territorio agricolo, del progresso felice e sfrenato, dei soldi e della ricchezza. Per tutti è “mamma Goodyear”, che strappa gli uomini alla disoccupazione, offre stabilità economica a famiglie monoreddito, fa coltivare il sogno dei figli all'università e spalanca le porte a mogli e bambini in occasione della tradizionale “festa della famiglia”. Per decenni occupa migliaia di persone sfiorando picchi di produzione di 20mila pneumatici al giorno. C'è lavoro e guadagno per tutti.
Ma dentro è l'inferno. Nel reparto presse, nel Banbury, nelle trafilature e nella vulcanizzazione si lavora si lavora a mani nude o con guanti d'amianto per resistere alle temperature incandescenti. Gli operai respirano ogni giorno polvere di nero fumo, fibre di amianto, ammine aromatiche, vernici, solventi, benzene, pigmenti, silice, talco, almeno 100 composti chimici differenti altamente cancerogeni. Ma non lo sanno. La loro divisa è una tuta blu che non tolgono neppure quando siedono a mensa. Nessuno fornisce loro mascherine o dispositivi di protezione, nessuno li informa del fatto che le sostanze che quotidianamente maneggiano sono letali. Così tutti tornano a casa ricoperti di nero, fin dentro gli occhi. Quel nero che non viene via neppure dopo la doccia e che resta impresso sulle lenzuola e sui cuscini anche quando dormono. Ma nessuno si lamenta perché nessuno sa.
Solo dopo gli anni '80 cominciano le prime malattie, tumori e neoplasie ai polmoni, allo stomaco, alla vescica, alla laringe. Le annota tutte il sindacalista Agostino Campagna sulla sua agenda rossa. Sono dieci, venti, cinquanta, poi diventano duecento. Ma è solo una stima in difetto, perché il tumore colpisce anche vent'anni dopo e oggi, a tredici anni dalla chiusura dello stabilimento di Cisterna, ci si ammala più di allora.
Fausto Mastrantonio, sopravvissuto dieci anni ai suoi compagni, è morto il 1 gennaio del 2013.
Alla fine di marzo il tribunale di Latina riaprirà le porte a un processo bis contro 12 ex dirigenti della multinazionale, già rinviati a giudizio nei mesi scorsi per altri morti e altri malati. Quella degli operai Goodyear, che qui ha chiuso i battenti nel 2000 per delocalizzare in Polonia, è l'ennesima silenziosa strage di cui si rischierà forse di perdere memoria. Il documentario Happy Goodyear, che uscirà in primavera, racconterà la battaglia di giustizia e di civiltà degli operai morti di lavoro.

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