Sul fronte della magistratura, in procura, nell'ufficio del procuratore capo Franco Sebastio si riunirà il pool inquirente che ha messo sotto accusa la più grande fabbrica italiana per l'inquinamento che riversa sul centro abitato. Dall'altra parte del tavolo si accomoderanno gli ingegneri Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lo frumento, i tre custodi giudiziari dei sei reparti finiti sotto chiave.
Ufficialmente l'incontro è stato fissato per consentire ai timonieri della grande fabbrica dell'acciaio, per nomina del giudice, di relazionare sull'attuale situazione all'interno del siderurgico. Ma nel chiuso della stanza dei bottoni si discuterà ancora una volta del passaggio alla fase esecutiva di quei sigilli che sono sulla carta dal 26 luglio, cioè da quando è scattato il primo provvedimento di sequestro firmato dal gip Patrizia Todisco. In realtà il semaforo verde è stato acceso ai primi di settembre dai procuratori, quando impartirono direttive ben precise. A quelle indicazioni fece seguito un rovente sopralluogo nello stabilimento, al termine del quale i custodi misero nero su bianco prescrizioni durissime.
Tra cui lo spegnimento di due altiforni e la dismissione di un terzo da tempo non utilizzato, la chiusura di oltre duecento forni della cokeria e di un'acciaieria.
Un attacco frontale al quale Ilva ha replicato, bussando alla porta del gip con la richiesta di una parziale facoltà d'uso degli impianti a fini produttivi. "Senza produzione è impossibile sostenere gli investimenti per la messa a norma dell'area a caldo" - hanno sostenuto i legali dell'azienda. Ma le loro argomentazioni si sono infrante sull'ennesimo no del gip, spiegato con "l'impossibilità di mercanteggiare sulla vita".
Lo stop del giudice ora ripropone il passaggio all'effettiva esecuzione del sequestro, che i custodi in prima battuta hanno rimesso a Bruno Ferrante, nella duplice veste di presidente di Ilva e di custode giudiziario. Solo una parte delle prescrizioni, però, sembrano trovare riscontro nelle intenzioni di Ilva, che, per esempio, rifiuta categoricamente la chiusura del grande altoforno 5, così come disposto dai tre ingegneri. "Chiudere quell'impianto significa cancellare oltre il 40% della produzione", spiegano i vertici dell'azienda. Ma a distanza di oltre sessanta giorni il sequestro per abbattere l'inquinamento non è più differibile.
lo slai cobas per il sindacato di classe ribadisce la sua posizione gli impianti non si possono chiudere - se è necessario chiuderne alcuni -senza un accordo che tuteli lavoro e salario degli operai, gli operai lo devono subito pretendere con una azione di lotta generale che blocchi fabbrica e città - noi avevamo proposto questo sciopero generale per il 19 ottobre - ora c'è prima la scadenza del 16 relativa alla nuova aia con proposta di manifestazione a roma di due sindacati noi non pensiamo che il 16 sia risolutivo, nè che si debba aspettare
slai cobas per il sindacato di classe
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