Alle 20 di ieri, martedì 9, è stata resa nota la decisione della Corte
Costituzionale, che ha respinto i ricorsi proposti dalla magistratura contro il
decreto che autorizza i Riva a continuare a inquinare e vendere il milione e
settecentomila tonnellate di acciaio bloccati come corpo di reato.
Con questa decisione, ancora una volta, lo Stato borghese, dopo il governo Monti che adottò il decreto, dopo il parlamento che lo convertì in legge quasi all'unanimità, conferma di schierarsi apertamente a difesa di padron Riva. A dimostrazione, se ce n’era ancora bisogno, che quando sono in gioco gli interessi dei padroni si scavalcano anche gli altri poteri di questo sistema borghese, le sue leggi e norme costituzionali.
Il decreto è una autorizzazione all’Ilva a produrre come ha fatto finora, lasciando la gestione della produzione nelle mani dei Riva, vale a dire di chi è incriminato; è un decreto, quindi, fatto per l'unico scopo di difendere il profitto - e non la messa a norma della fabbrica, visto che per questa vi era già l’Aia che stabilisce prescrizione, tempi e di conseguenza interventi sanzionatori; anzi è CONTRO una messa a norma che metta in discussione la libertà di produrre.
Ciò che la
sentenza della Corte costituzionale conferma è che non c'è alternativa
all'organizzazione autonoma e a lotta in prima persona degli operai, ll'unità
operai-cittadini per una rivolta operaia e popolare che imponga a Riva, allo
Stato, a ogni governo dei padroni il rispetto del diritto al lavoro e alla
salute.
Slaicobas per il
sindacato di classeCon questa decisione, ancora una volta, lo Stato borghese, dopo il governo Monti che adottò il decreto, dopo il parlamento che lo convertì in legge quasi all'unanimità, conferma di schierarsi apertamente a difesa di padron Riva. A dimostrazione, se ce n’era ancora bisogno, che quando sono in gioco gli interessi dei padroni si scavalcano anche gli altri poteri di questo sistema borghese, le sue leggi e norme costituzionali.
Il decreto è una autorizzazione all’Ilva a produrre come ha fatto finora, lasciando la gestione della produzione nelle mani dei Riva, vale a dire di chi è incriminato; è un decreto, quindi, fatto per l'unico scopo di difendere il profitto - e non la messa a norma della fabbrica, visto che per questa vi era già l’Aia che stabilisce prescrizione, tempi e di conseguenza interventi sanzionatori; anzi è CONTRO una messa a norma che metta in discussione la libertà di produrre.
Ciò che il
decreto stabilisce è di fatto un lavoro forzato sotto padron Riva
e sotto controllo dello Stato, in una fabbrica resa franca da norme e diritti,
e non un lavoro sicuro mettendo a norma l'Ilva, come
richiesto negli ultimi tempi da operai e comitati cittadini.
Riportiamo sotto
la disamina del decreto fatta al tempo della sua emanazione:
E questo - scrive il decreto - deve essere consentito “in ogni caso” al di là dei “provvedimenti di sequestro e gli altri provvedimenti cautelari dell’autorità giudiziaria”; così il sequestro può formalmente restare ma perde ogni efficacia preventiva e deterrente.
D’altra parte come si concilia il via libera all’attività produttiva sempre e comunque, e nella piena gestione dei vertici aziendali con una seria messa a norma che necessariamente prevede il fermo temporaneo degli impianti da mettere in sicurezza e una riduzione della quantità di produzione di acciaio?
Il segretario della Uilm: “io lo considero un passo avanti… credo che occorra dare tempo a questa o a un’altra azienda per ottemperare alle prescrizioni…”.
Il segretario della Fiom, che sembra fare dello spirito ad un funerale: “L’Ilva non avrà più scusanti, i lavori per il risanamento ambientale potranno essere finalmente realizzati e nel più breve tempo possibile. Il tempo delle chiacchiere è finito…. Il governo è stato messa a dura prova, perché chiamato a risolvere una situazione certamente delicata”.
E il cerchio padroni, governo, Stato, sindacati confederali si chiude…
Nei fatti il decreto riconsegna la fabbrica in mano ai sindacati confederali, il cui impegno principale sarà inevitabilmente quello di vigilare sulla sua “piena attuazione”, contrastando tutto ciò che lo ostacola, in primis l'opposizione degli operai e dei sindacati e organismi di base.
Riva e governo dicono invece che: l'azienda deve continuare a fare profitti, altri profitti, se volete gli interventi previsti dall’Aia, se volete che l’azienda metta soldi.
Riva con la serrata di fine novembre è riuscito nel suo intento: dare un forte segnale/richiamo al governo per imporre il suo diktat a difesa della libertà di produrre; ottenere la fine di fatto del sequestro degli impianti (che comunque finora non gli aveva impedito di produrre), e la vanificazione dell’azione della magistratura; lanciare ora con il decreto salva-Ilva un messaggio rassicurante verso le imprese committenti; non mettere soldi già incassati negli anni passati per la messa a norma.
Il decreto, a premessa, parla di presa d’atto della disponibilità dell’Ilva e del piano operativo presentato in attuazione dell’Aia, ma nulla dice sul fatto che questo piano dell’Ilva anche in termini di soldi è assolutamente inadeguato. Dare copertura di legge ad una politica padronale che lega i soldi della messa a norma alla nuova produzione e a nuovi utili, vuol dire stare sempre sotto ricatto, senza alcuna certezza di interventi e tempi di bonifica; ogni problema di mercato, ogni momentanea riduzione dei profitti, potrà essere usata da Riva per procrastinare gli interventi di messa a norma.
Il decreto, inoltre, sorvola bellamente sul fatto che vi è un'inchiesta parallela sulla corruzione che ha accompagnato l'attività di inquinamento dell'Ilva. Chi ha già violato, chi ha fatto azioni criminose, e ne ha goduto in termini anche economici in questi anni, deve pagare! Ma con Riva, il governo invece di perseguirlo lo premia; è come se ad un ladro che deve restituire ciò che ha rubato, gli si consenta di continuare a rubare per fare i soldi necessari alla restituzione del malloppo.
- la lotta per salute e lavoro a Taranto si può fare solo con gli operai contro Riva e lo Stato dei padroni;
- questa lotta all’Ilva non può essere “normale” ma può e deve anche ora assumere i caratteri di rivolta, della ribellione continua al lavoro forzato e insicuro.
Hanno anche posto in embrione, gridando: “I padroni della fabbrica siamo noi”, la questione storica e strategica che “il potere deve essere operaio”. Ma questo nei fatti dice che non ci può essere una vera compatibilità tra lavoro salariato e salute/ambiente senza rovesciare il sistema capitalista e che serve un potere operaio, per il quale, però, non bastano slogan e speranze illusorie di qualche benpensante, ma occorre opporre alla guerra dei padroni e del loro Stato la guerra di classe, la rivoluzione proletaria per abbattere il potere dei padroni.
IL DECRETO
nella maggior
parte dei punti in premessa sembra che debba avere per oggetto “il risanamento
ambientale e la riqualificazione del territorio di Taranto”, la “più rigorosa
protezione della salute e dell’ambiente”, “la piena attuazione delle
prescrizioni dell’Aia, volte alla immediata rimozione delle condizioni di
criticità esistenti che possono incidere sulla salute, conseguendo il
sostanziale abbattimento delle emissioni inquinanti”.
Ma, dopo, dopo
aver fatto anche una presentazione dell’Aia falsata (visto che essa è sia nel
merito e soprattutto nei tempi totalmente insufficiente rispetto alle necessità
di messa a norma), arriva alla vera ragione del decreto “la continuità del
funzionamento produttivo dell’Ilva” che “costituisce una priorità di interesse
nazionale”.
L’AIA viene resa
legge. E’ la prima volta che questo avviene. Il suo essere legge impedisce non
solo l’intervento della magistratura ma anche modifiche migliorative frutto
della lotta e dell’iniziativa dei lavoratori. Tant’è che l’art. 1 punta
proprio a blindare l’Aia, affermando che “le misure volte ad assicurare la
prosecuzione dell’attività produttiva… in quanto in grado di assicurare la più
adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecnologie
disponibili, sono esclusivamente e ad ogni effetto quelle contenute
nell’Aia”.
Affermato
questo, il decreto mette in secondo piano la stessa Aia, e scrivere che la
prosecuzione dell’attività può essere fatta subito, “salvo che sia riscontrata
l’inosservanza delle prescrizioni dell’Aia”, è un bluff, dato che il 2° comma
stabilisce che già prima che si avviino gli interventi previsti, dalla
entrata in vigore del decreto l’Ilva “è immessa nel possesso dei beni
dell’impresa ed è in ogni caso autorizzata, nei limiti consentiti dal
provvedimento di cui al c. 1, alla prosecuzione dell’attività produttiva e della
conseguente commercializzazione dei prodotti per tutto il periodo di validità
dell’Aia”, vale a dire 6 anni.E questo - scrive il decreto - deve essere consentito “in ogni caso” al di là dei “provvedimenti di sequestro e gli altri provvedimenti cautelari dell’autorità giudiziaria”; così il sequestro può formalmente restare ma perde ogni efficacia preventiva e deterrente.
D’altra parte come si concilia il via libera all’attività produttiva sempre e comunque, e nella piena gestione dei vertici aziendali con una seria messa a norma che necessariamente prevede il fermo temporaneo degli impianti da mettere in sicurezza e una riduzione della quantità di produzione di acciaio?
Che tutto questo
sia posto spudoratamente a riaffermazione che l’unico diritto che va tutelato è
quello della proprietà dei padroni, all’art. 2 il decreto afferma
pertanto che, non solo l’Ilva può produrre liberamente ma “rimane in capo ai
titolari dell’Aia (cioè ai Riva incriminati) la gestione e la responsabilità
della conduzione degli impianti dello stabilimento”.
Lo Stato
riaffida gli impianti industriali posti sotto sequestro perché hanno causato e
causano tra i lavoratori e la popolazione malattie e morte, ad una società i cui
vertici sono o agli arresti domiciliari o latitanti. Il decreto diventa così una
sorta di condono ai Riva.
Né è in
contrasto con questo la nomina di un Garante fatta all’art. 3,
“incaricato di vigilare sulla attuazione delle disposizioni del presente
decreto”, per tre anni. Una persona che dovrebbe avere competenze giuridiche,
siderurgiche, chimiche, epidemiologiche (ma questo è un mostro di scienza non
una persona!), che comunque deve solo segnalare al presidente del consiglio e ai
ministri competenti “eventuali criticità” e al massimo fare proposte, ma non ha
alcun potere interdittivo o di prescrizione. Una persona che verrà ben pagata,
200mila euro lordi l’anno.
E non si spiega
perché una persona, quando esistono gli Enti di controllo e di intervento
preposti: Asl, Ispettorato del Lavoro…
Infine il
decreto, né l’Aia, nulla dice sui livelli di produzione record dello
stabilimento Ilva di Taranto. Il grado di ipersfruttamento degli impianti, la
maggiorparte già vecchi nel ’95, presi da Riva senza rinnovarli fino ad
esaurimento, il “tirare al massimo” che hanno portato al record di 10milioni
medi di t/a di produzione, con conseguente supersfruttamento degli operai che
hanno dovuto lavorare con ritmi intensi, in condizioni di insicurezza e di
rischio per la salute e la vita, ha un nesso dimostrato con i livelli di
inquinamento – vedi area Parchi in cui più si fa movimentazione, più si
sollevano polveri di minerali nell’aria, o l’area Acciaieria, dove il fenomeno
dello slopping (come è scritto nella sentenza del Riesame) che “si verifica con
frequenza e ordinariamente, vuol dire che è sicuramente collegato alla intensità
delle operazioni lavorative”. Pertanto la riduzione della produzione è un
intervento che dovrebbe far parte del piano di bonifica e messa in sicurezza, ma
di questo non si parla.
Anzi, no, uno ne
parla. Si tratta di Bersani, e per dirlo afferma il falso: “si tratta – ha
dichiarato - di un decreto che a prezzo di una riduzione dell’attività
produttiva (?) consente l’intervento ambientale, il presidio e il monitoraggio
della salute”.
Secondo Clini,
Passera e Monti, dovrebbe dare garanzia, la minaccia contenuta nel decreto, art.
3, di un’eventuale adozione di provvedimenti di amministrazione straordinaria,
anche in considerazione degli art. 41 e 43 della Costituzione”. Ma
Passera poi spiega che “le norme di amministrazione controllata potrebbero
togliere enorme valore alla proprietà, il suo bene si depaupera e si arriva fino
al punto di perderne il controllo”. Certo Riva potrebbe perdere la proprietà
dell’Ilva ma lo stabilimento che lascerebbe sarebbe “depauperato” e quindi con
un valore quasi nullo. Chi se lo prenderebbe a questo punto? Bene che vada
sarebbe svenduta, insieme ai lavoratori.
Per tutto
questo il decreto salva-Ilva è da respingere! Fermo restando che non finisce
qui. Perchè il ricatto di padron Riva continua, finora ha ben funzionato con
il governo, e non si accontenta neanche di questo decreto.
Ma occorre
aggiungere un’altra conseguenza negativa, forse quella più importante dal punto
di vista della classe operaia e della sua lotta. Lo abbiamo detto all’inizio di
questo articolo: il decreto stabilisce di fatto un lavoro forzato
sotto padron Riva e sotto controllo dello Stato, in una fabbrica resa
franca da norme e diritti. Ci mancherà poco – diceva un operaio dell’Ilva – che
entri l’esercito in fabbrica per garantire la libertà di produzione. In nome di
questa “libertà” verranno impediti sia interventi della magistratura, ma anche
lotte, scioperi, proteste degli operai; in fabbrica decide Riva e lo Stato. Gli
operai sono fantasmi se lavorano e non pretendono; sono un “problema di ordine
pubblico” (come scrive in premessa il decreto), se protestano e rivendicano
diritti in contrasto con la legge a difesa della libertà di produzione. Questa
situazione inevitabilmente non farà che peggiorare il clima di insicurezza tra
gli operai, che in uno stabilimento come l’Ilva, si traduce immediatamente in
insicurezza della propria salute e vita. Sarà un caso (ma non lo è), in meno di
un mese due operai giovani sono morti! E gli operai dicono che oggi, molto più
di prima, vanno a lavorare con la paura.
I Sindacati
confederali si sono subito schierati a sostegno del decreto.
Il segretario
della Fim ha dichiara: “il decreto è una giusta soluzione che affronta l’intera
questione… L’azienda è nelle condizioni di affrontare queste spese e diluirle
nell’arco di due-tre anni. E’ un grande gruppo che ha le giuste
garanzie…”.Il segretario della Uilm: “io lo considero un passo avanti… credo che occorra dare tempo a questa o a un’altra azienda per ottemperare alle prescrizioni…”.
Il segretario della Fiom, che sembra fare dello spirito ad un funerale: “L’Ilva non avrà più scusanti, i lavori per il risanamento ambientale potranno essere finalmente realizzati e nel più breve tempo possibile. Il tempo delle chiacchiere è finito…. Il governo è stato messa a dura prova, perché chiamato a risolvere una situazione certamente delicata”.
E il cerchio padroni, governo, Stato, sindacati confederali si chiude…
Nei fatti il decreto riconsegna la fabbrica in mano ai sindacati confederali, il cui impegno principale sarà inevitabilmente quello di vigilare sulla sua “piena attuazione”, contrastando tutto ciò che lo ostacola, in primis l'opposizione degli operai e dei sindacati e organismi di base.
Il No operaio
alla chiusura dell’Ilva e il ricatto produttivo di Riva e del Governo Monti sono
due cose opposte, e servono interessi opposti.
Quando gli
operai dicono che l’Ilva non deve chiudere, che gli impianti non si devono
fermare senza prima un piano che garantisca il lavoro e il salario a tutti gli
operai, di fatto impediscono che l’Ilva diventi una mega Bagnoli senza
riconversione lavorativa, senza risanamento dell’ambiente, e in mano alla
speculazione privata e della criminalità; gli operai dicono NO alla
cancellazione di una classe operaia di ben 20mila lavoratori, unica forza che
può imporre con la lotta una reale messa a norma dell’Ilva. Sono gli operai
dell’Ilva che negli anni passati hanno lottato, quasi sempre da soli, per la
difesa della salute, della sicurezza, dell’ambiente, che oggi, quando lottano,
sono la “garanzia” per gli abitanti di Taranto. Riva e governo dicono invece che: l'azienda deve continuare a fare profitti, altri profitti, se volete gli interventi previsti dall’Aia, se volete che l’azienda metta soldi.
Riva con la serrata di fine novembre è riuscito nel suo intento: dare un forte segnale/richiamo al governo per imporre il suo diktat a difesa della libertà di produrre; ottenere la fine di fatto del sequestro degli impianti (che comunque finora non gli aveva impedito di produrre), e la vanificazione dell’azione della magistratura; lanciare ora con il decreto salva-Ilva un messaggio rassicurante verso le imprese committenti; non mettere soldi già incassati negli anni passati per la messa a norma.
Il decreto, a premessa, parla di presa d’atto della disponibilità dell’Ilva e del piano operativo presentato in attuazione dell’Aia, ma nulla dice sul fatto che questo piano dell’Ilva anche in termini di soldi è assolutamente inadeguato. Dare copertura di legge ad una politica padronale che lega i soldi della messa a norma alla nuova produzione e a nuovi utili, vuol dire stare sempre sotto ricatto, senza alcuna certezza di interventi e tempi di bonifica; ogni problema di mercato, ogni momentanea riduzione dei profitti, potrà essere usata da Riva per procrastinare gli interventi di messa a norma.
Il decreto, inoltre, sorvola bellamente sul fatto che vi è un'inchiesta parallela sulla corruzione che ha accompagnato l'attività di inquinamento dell'Ilva. Chi ha già violato, chi ha fatto azioni criminose, e ne ha goduto in termini anche economici in questi anni, deve pagare! Ma con Riva, il governo invece di perseguirlo lo premia; è come se ad un ladro che deve restituire ciò che ha rubato, gli si consenta di continuare a rubare per fare i soldi necessari alla restituzione del malloppo.
Gli operai il
27 novembre quando hanno occupato lo stabilimento e invaso la direzione
aziendale, con i dirigenti di Fim, Fiom e Uilm che stavano dentro e non con gli
operai, gli operai del Mof con il lungo sciopero e presidio,
isolati e contrastati dai sindacati confederali, gli operai degli altri reparti
che hanno scioperato al fianco dei loro compagni rischiando il posto di lavoro,
hanno nei fatti posto una parola decisiva a questa situazione, sia pur ancora
tutta da consolidare:
- la lotta per
difendere il lavoro, salute, sicurezza, la fanno gli operai autorganizzati e
mobilitati fuori e contro i sindacati confederali - autorganizzazione che oggi
all'Ilva attraversa vari percorsi ma che, come si batte lo slai cobas per il
sindacato di classe, deve unirsi e costruire il sindacato di classe;
- la lotta per salute e lavoro a Taranto si può fare solo con gli operai contro Riva e lo Stato dei padroni;
- questa lotta all’Ilva non può essere “normale” ma può e deve anche ora assumere i caratteri di rivolta, della ribellione continua al lavoro forzato e insicuro.
Hanno anche posto in embrione, gridando: “I padroni della fabbrica siamo noi”, la questione storica e strategica che “il potere deve essere operaio”. Ma questo nei fatti dice che non ci può essere una vera compatibilità tra lavoro salariato e salute/ambiente senza rovesciare il sistema capitalista e che serve un potere operaio, per il quale, però, non bastano slogan e speranze illusorie di qualche benpensante, ma occorre opporre alla guerra dei padroni e del loro Stato la guerra di classe, la rivoluzione proletaria per abbattere il potere dei padroni.
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