mercoledì 13 marzo 2013

Allarme rosso per i lavoratori esposti all’amianto



1.- Dando ulteriore prova di una risalente,  quasi  incoercibile, idiosincrasia nei confronti della normativa in materia previdenziale per i lavoratori esposti all’amianto, la nostra Corte di Cassazione (seguita a ruota da quasi tutta la giurisprudenza di merito) si è inventata di sana pianta l’istituto della c.d. decadenza tombale dall’azione, con perdita definitiva del diritto alla rivalutazione contributiva (e pesanti condanne alle spese per i lavoratori; in un ultimo esempio il caso è stato deciso addirittura con ordinanza  n. 1629/2012 ). Si tratta di un istituto giuridico che però non esiste nell’ordinamento, il quale conosce invece la decadenza dalla domanda processuale che non può mai seppellire però il diritto sostanziale!

Si tratta pure di una soluzione che comporta pesanti ed incongrue  conseguenze sui lavoratori esposti, soprattutto perché l’applicazione della normativa in materia previdenziale ha conosciuto sotto il profilo temporale  un recepimento assai differenziato a  seconda delle province italiane; e ciò principalmente per l’atteggiamento temporeggiatore messo in atto dagli istituti previdenziali con il noto palleggiamento delle responsabilità e delle pratiche da un istituto pubblico all’altro (dalla direzione provinciale per i curricula; all’INAIL per la certificazione; all’INPS per la maggiorazione contributiva).

Se poi si aggiunge l’enorme incertezza prodotta in materia dalle continue modifiche  normative e dalla contraddittorie pronunce della giurisprudenza (anche della Corte Cost.), si può capire che non pochi lavoratori siano rimasti spesso in balia degli eventi, ed abbiano più che altro subito in modo del tutto involontario il decorso del termine triennale di cui si discute, il cui spirare si rivela ora letale, secondo  la creativa (a dir poco) giurisprudenza in discussione.

2.- E’ difficile poter spiegare a tutti la bislacca questione, ma occorre provarci.

Vi è che l’ordinamento l’art. 47 DPR 639/1970 preveda anzitutto che per ottenere una prestazione previdenziale occorre agire in giudizio entro tre anni decorrenti dalla decisione sulla domanda amministrativa o sul ricorso amministrativo successivamente presentato.

Non potendo incidere, per superiore direttiva Costituzionale, sul diritto irrinunciabile ed imprescrittibile al conseguimento del trattamento, in materia previdenziale il decorso di detto termine  ha da sempre inciso soltanto sull’azione giudiziaria volta al conseguimento delle prestazione , che diviene  appunto inammissibile per decadenza a seguito del trascorrere del termine triennale; talchè il lavoratore ha sempre conservato la facoltà di ripresentare una domanda amministrativa per ottenere il diritto sostanziale; ed di ricorrente nuovamente in giudizio in caso di mancato accoglimento (ovviamente dovendo sempre e soltanto rispettare un nuovo termine di tre anni previsto per l’azione giudiziaria ed innescato a seguito della nuova domanda in sede amministrativa).

3.- A seguito di successive modifiche normative l’art. 47 del dpr 639/1970 è stato interpretato autenticamente, integrato e modificato (dall’art. 6 del D.L. 29 marzo 1991 n. 103, convertito nella legge 1 giugno 1991 n. 166, e dall’art. 4 del D.L. 19 settembre 1992 n. 384, convertito nella legge 14 novembre 1992 n. 438),  riconoscendosi pure che lo stesso decorso del termine triennale comporti  non solo la decadenza della domanda processuale ma anche la decadenza e con essa la perdita dei “ratei pregressi”, ossia delle somme maturate prima della domanda giudiziale che si perdono per sempre fermo restando ovviamente “i ratei successivi” ossia la facoltà di ottenere  la rate di pensione anche maggiorata conseguibile per effetto della nuova domanda amministrativa e quindi giudiziaria

Dunque la decadenza  per decorso del termine triennale dal 1992 ha effetti limitati alla azione svolta in giudizio ed ai ratei maturati prima della domanda; il lavoratore ha sempre conservato il diritto ad una nuova domanda processuale ed ai ratei futuri.

Ora con questo nuovo (e purtroppo già consolidato) corso giurisprudenziale, si sostiene in modo sostanzialmente immotivato che per i lavoratori esposti all’amianto non valga il diritto vigente, ma ne valga un altro speciale assai più restrittivo, con effetti  tombali non previsti dall’ordinamento. L’ordinamento non prevede infatti che un diritto previdenziale ( coma la contribuzione per esposizione ad amianto) si possa perdere per sempre senza esercitare effetti nemmeno per il futuro grazie al decorso di un termine che prevede soltanto la perdiata di una domanda.

Al contrario una simile soluzione appare in sicuro contrasto con la Costituzione italiana che tutela la posizione previdenziale dei lavoratori come diritto irrinunciabile, imprescrittibile e non suscettibile a decadenza alcuna.

 Ricordo a tutti che ad es.  la Corte Costituzionale (246/1992)  decidendo in materia di integrazione al minimo della pensione – pure esso una componente del diritto a pensione –  affermò  che la decadenza dall’azione possa determinare (lo dice la parola stessa) soltanto la perdita dei ratei pregressi e non del diritto alla pensione integrata al minimo per il futuro.

“Il diritto a pensione, infatti, come si è accennato, è imprescrittibile (nè sottoponibile a decadenza) secondo una giurisprudenza non controversa, in conformità di un principio costituzionalmente garantito che non può comportare deroghe legislative. L’ossequio a tale principio si rinviene puntualmente nell’art. 6, primo comma, del d.l. n. 103 del 1991, avendo esso – nell’interpretare autenticamente l’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 – espressamente stabilito che la decadenza ivi prevista determina l’estinzione del diritto “ai ratei pregressi”.
5. Le considerazioni che precedono, in ordine all’interpretazione dell’art. 6, primo comma, del d.l. n. 103 del 1991, implicano la non fondatezza di tutte le questioni, proposte dai giudici remittenti sulla base dell’erroneo convincimento che la norma preveda l’estinzione – a seguito della decorrenza del termine decennale – non soltanto dei singoli ratei, ma dello stesso diritto a pensione”

Sull’intangibilità del diritto a pensione si sono peraltro pronunciate anche C. cost. 26 febbraio 2010, n. 71;  C. cost. 22 luglio 1999, n. 345, la quale ultima  lo definisce «fondamentale, irrinunciabile e imprescrittibile» e C. cost. 15 luglio 1985, n. 203 (FI, 1985, I, 354),  secondo la quale si tratta di una <<situazione finale … attinente alla sopravvivenza della persona>>

La nuova giurisprudenza attraverso mille contorsioni e contraddizioni, sostenendo tutto ed il suo contrario (diritto autonomo – diritto accessorio- domanda sì- domanda no- incremento- conseguimento, etc.) ha reso anzitutto illeggibile una situazione assai chiara dal punto di vista normativo;  finendo per affossare  un diritto Costituzionale dei lavoratori (chè tale è la contribuzione per esposizione all’amianto, secondo la stessa Cassazione)  attraverso un istituto dedicato al processo (l’art.47 dpr 70) che prevede ed ha sempre previsto, al più, la perdita dei ratei pregressi (come conferma letteralmente l’art.6 della legge 166/1991).

Manca del tutto in queste sentenze che giocano formalisticamente con le parole,  come fanno i peggiori azzeccagarbugli, il fatto che qui stiamo a trattare con la dignità di persone a cui anche “un beneficio” (sic) previdenziale doveva serviva a restituire una dimensione soggettiva, di persone in carne ossa appunto, che per lungo tempo è stata loro negata e per colpa di tanti.

Si discute invece di queste questioni prevalentemente adoperando sofismi; così che istituti chiari possano venire piegati alla bisogna ad interpretazioni contorte, anche attraverso degli escamatoges; come quando si dice a seconda delle circostanze – ma sempre in modo contrario ai diritti dei lavoratori – che il diritto alla rivalutazione configuri ora un diritto autonomo, ora invece un diritto accessorio…

Quando invece configura tutte e due, a seconda della prospettiva in cui se ne discute. Chè infatti se si guarda ai contributi, l’aumento per amianto è un diritto autonomo (e diverso dalla contribuzione maturata in forza del lavoro svolto); se si guarda alla pensione si tratta del diritto all’aumento della pensione già liquidata o da liquidare (e quindi di un quid che accede al trattamento principale):

Il sospetto è comunque che la tesi liquidatoria adottata da larga parte della giurisprudenza, oltre che per la nota avversione nei confronti della normativa in materia previdenziale considerata da molte parti fin troppo generosa per i lavoratori esposti (!); risponda anche ad un interesse, per così dire, di ceto giudiziario: perché consente di liberarsi rapidamente ed affossare per sempre un contenzioso largamente diffuso in ogni tribunale italiano; e ciò soprattutto in ragione della larga inottemperanza al principio di legalità, ovvero  della disapplicazione perpetrata in sede amministrativa della legge della Repubblica (257/1992) che sancisce il diritto dei lavoratori alla rivalutazione contributiva.

E’ un esempio classico di come nel nostro Paese l’applicazione delle regole vive “in un modo a parte”,  fatto di sofismi; e di formalismi; e conduca spesso ad interpretazioni che appaiono dirette contro quelle stesse esigenze umane (non del ceto giudiziario) in funzione delle quali le leggi vengono pur sempre concepite; ed è proprio da questa mutazione che si generano i mostri di cui ci occupiamo.

Difficile ipotizzare ora ottimisticamente che in sede giudiziaria possa prima o poi prevalere la più scomoda e faticosa vittoria della ragione rispetto alla più “comoda” strada segnata dal formalismo prevalsa in Cassazione; e comunque è impossibile nel frattempo evitare i “morti e i feriti” ( addirittura l’insopportabile e vergognosa condanna alle spese! nei confronti dell’INPS vittorioso!  paradosso tra i paradossi) che intanto la disapplicazione delle regole produrrà sul campo delle cause giudiziarie perse.

Più proficuo allora pensare che chi abbia responsabilità legislative si attivi per intervenire e riparare al più presto a questo monstrum giuridico cui ci riferiamo; ovviamente insieme ai molti altri variegati ed auspicati interventi correttivi che la normativa in materia di amianto richiede, come ci ricorda da molto tempo l’On. Casson.

Anche per questo, per aver escluso una riflessione ampia e specifica sui temi giuridici, che sono invece prioritari, attraverso la previsione di apposita sessione ad hoc, ha fatto sì che la Conferenza governativa amianto del novembre scorso a Venezia, si rivelasse alle fin fine un’ulteriore occasione mancata.

Roberto Riverso
magistrato del Tribunale di Ravenna

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